Monopoli (^)

Un monopolio è definito dal Webster's Third New International Dictionary (1981) nel modo seguente:

“Proprietà o controllo che permette il dominio dei mezzi di produzione o del mercato in una attività commerciale o in una professione solitamente per controllare i prezzi, e ciò avviene

- attraverso un privilegio esclusivo disposto per legge (come una concessione, uno statuto, un brevetto, o un diritto d’autore garantiti dallo stato)
- o attraverso il controllo di una fonte di approvvigionamento (come la proprietà di una miniera)
- o accaparrando un particolare articolo o bene sul mercato
- o attraverso combinazioni o azioni in comune.”

Da questa definizione lessicale emerge chiaramente che i privilegi stabiliti per legge (concessioni, brevetti, ecc.) sono considerati la prima causa nella formazione dei monopoli. 

Per quanto riguarda le altre cause, occorre dire che, per avere un monopolio, il controllo della fonte di approvvigionamento dovrebbe essere totale per quanto riguarda il bene o servizio fornito, e questo è possibile generalmente solo se una impresa ottiene “diritti” esclusivi (di sfruttamento, di commercializzazione) da un governante e questi diritti sono fatti rispettare in maniera molto rigida. Ciò significa che nessuna fornitura di quel bene o servizio può entrare nel territorio controllato dal governante altrimenti l’obiettivo di base del monopolio, quello di controllare il prezzo, non sarebbe raggiunto.

Lo stesso si applica al caso in cui il produttore riesce ad avere il controllo del mercato accaparrandosi un bene in quantità tali da riuscire a dettare il prezzo di quel bene spingendolo oltre il prezzo di mercato. Questo può avvenire solo se siamo in presenza di regole introdotte dal potere politico che vincolano il commercio o l’accesso ad una certa area di produzione. Infatti, in una situazione di libertà di impresa, molti commercianti o produttori interverrebbero nel caso in cui si creassero opportunità di profitto; e certamente un numero notevole di essi si attiverebbe da tutto il mondo ove fosse possibile intervenire in una area in cui si potessero realizzare profitti straordinari (anche solo per un periodo limitato).

Riguardo alle combinazioni o azioni in comune tra i produttori di un certo bene (ad es. i cartelli) la storia mostra che, di solito, esse non reggono a lungo (si vedano le crisi continue del cartello petrolifero) a causa della diversità di esigenze; inoltre, se i prezzi sono spinti troppo in alto il risultato probabile è una contrazione delle vendite (che mette a rischio i profitti dei settori più deboli del cartello) e la ricerca, da parte dei consumatori, di modi alternativi di soddisfare quei bisogni.

L’unico cartello monopolistico di un certo successo che sia mai esistito, non sostenuto dallo stato, è il cartello dei diamanti. Ma qui siamo in un caso molto speciale in cui una caduta dei prezzi che fa sì che i diamanti diventino un prodotto di massa, non soddisferebbe né il venditore né l’acquirente. Infatti, ucciderebbe non solo il monopolio dei diamanti ma il diamante stesso in quanto pietra preziosa. E questo è qualcosa che né venditori né acquirenti di diamanti vuole che accada.

Da quanto è stato fin qui detto, appare che il solo modo per dar vita e mantenere davvero un monopolio è attraverso il “privilegio legale esclusivo” in tutte le sue forme, vale a dire per mezzo di un potere politico che domina il gioco economico e favorisce alcune persone spudoratamente e ne danneggia altre impietosamente. E in realtà, il significato originario del termine monopolio (1596) era: “privilegio esclusivo (conferito dal sovrano o dallo stato) di vendere certi beni o di commerciare con una certa località o paese.” (dall’Oxford English Dictionary, Terza Edizione 1972).

E questo è quello che è avvenuto nel corso della storia come sarà evidenziato in questo saggio che intende essere una analisi sintetica di alcune realtà monopolistiche del passato e del presente e prospettare alcuni modi possibili per superarle nel futuro.

 

Monopoli feudali (^)

L’inizio del primo millennio presentava, almeno in Europa, molti feudi territoriali, ognuno sotto il controllo di un signore.
Un feudo era una sorta di licenza, garantita dal signore più potente (il re o l’imperatore) a un vassallo in cambio di obbedienza e assistenza, che gli permetteva di godere il possesso di un certo territorio e di estrarre servizi dai suoi abitanti.
Le persone che vivevano nel territorio diventavano quindi dipendenti dal padrone loro assegnato e obbligati a compiere determinati lavori.

Nel corso del tempo il padrone feudale, al fine di assicurarsi abbastanza risorse per rimanere al potere e di godere di tutti gli agi, escogitò varie fonti di reddito.
Questo egli fece monopolizzando le persone e i mezzi di produzione.
Il padrone feudale introdusse ed esercitò vari tipi di monopolio:

Monopolio sui lavoratori. I lavoratori erano considerati come una cosa attaccata al suolo e, come il suolo, proprietà del signore feudale e obbligati a utilizzare parte del loro tempo e energie nel coltivare i terreni del padrone. Essi non avevano il diritto di abbandonare il feudo nemmeno per sposarsi (forismariago) senza l’espressa autorizzazione del signore che non voleva perdere alcun lavoratore.

Monopolio sui produttori. I contadini erano obbligati a usare strumenti e attrezzature che appartenevano o erano date in concessione dal padrone feudale in condizioni di monopolio. In altre parole, i contadini dovevano portare il loro grano al mulino del signore, le loro olive alle macine del signore, il loro pane al forno del signore e dovevano pagare (in beni o denaro) per l’uso di queste e altre attrezzature in base a tariffe imposte da un padrone monopolista. Ciò che era particolarmente gravoso e odioso nel monopolio delle attrezzature (mulini, macine, forni) era il fatto che, molto spesso, il contadino copriva lunghe distanze su terreni accidentati portando i beni grezzi da lavorate per poi scoprire che doveva attendere giorni in quanto il mulino era già occupato o fuori uso. E talvolta essi dovevano accettare grano mal macinato o pane mal cotto senza possibilità di lamentarsi o di scegliere. Le cronache dell’epoca feudale registrano molti casi in cui gli ufficiali del signore feudale entrarono nelle case per distruggere macine che erano state fatte per superare il monopolio del padrone.

Monopolio sugli abitanti. Le persone che abitavano nel feudo erano soggette al signore feudale che aveva assunto l’esclusiva dell’amministrazione della giustizia e dell’uso della forza. Chiaramente, nel caso di attacco dall’esterno il peso di combattere gli aggressori ricadeva in misura notevole anche sui contadini ma essi non avevano alcuna voce in questioni amministrative e militari.

Da queste brevi note emerge che la realtà del feudo era costituita da una serie di pratiche monopolistiche rigidamente definite che imprigionavano la vita dei contadini e ne bloccavano lo sviluppo personale.
Fu solo quando i servi rurali iniziarono ad abbandonare il feudo, diventando mercanti e costituendo piccoli agglomerati che attiravano altri contadini, che il dominio monopolistico dei signori feudali iniziò a diminuire per poi crollare del tutto. Le prime città libere furono così promosse.
Purtroppo, non appena i liberi cittadini delle libere città divennero sempre più ricchi e potenti, essi cominciarono ad imporre, a loro volta, vecchie e nuove forme di monopolio.

 

Monopoli cittadini (^)

Gli artigiani-commercianti che ci congregarono per vivere nelle città formarono molto presto delle associazioni di protezione note come corporazioni o gilde che collegavano tra di loro coloro che esercitavano lo stesso mestiere.

Quello che era all’inizio una unione per l’assistenza dei suoi membri divenne, a un certo punto, un gruppo molto chiuso con forti legami tra i suoi associati, distinto e opposto agli interessi di tutti coloro che non ne facevano parte (i contadini, gli artigiani di altri mestieri). Tutte queste organizzazioni di produttori e di mercanti, da Venezia a Genova alla Lega Anseatica, cercarono di monopolizzare la produzione e la vendita dei beni e le vie di commercio.

In particolare, le seguenti pratiche monopolistiche arrivarono a caratterizzare sempre più il comportamento dei membri delle corporazioni nelle città:

Lavoro. Regolamenti severi e restrizioni di natura generale furono introdotti attraverso regole di vario tipo:

- Regole giuridiche. Né gli stranieri né i servi né le persone nate fuori del matrimonio potevano essere membri di una corporazione.

- Regole economiche. L’ammissione nella corporazione era soggetta al pagamento di un contributo, generalmente abbastanza elevato. Al tempo stesso si faceva divieto di pagare i lavoratori con salari considerati eccessivi.

- Regole tecniche. Per ottenere il titolo di maestro l’apprendista doveva lavorare sette anni nella bottega e doveva produrre, alla fine di tale periodo, il cosiddetto “capolavoro”.

Produzione. Le corporazioni stabilivano il numero dei lavoratori, dei giorni lavorativi e delle botteghe che potevano essere aperte in una città; l’obiettivo era quello di tenere sotto controllo la quantità prodotta al fine di evitare sovrapproduzione e caduta dei prezzi di vendita. Inoltre, si faceva divieto di aprire botteghe nel territorio rurale; questo divieto obbligava i contadini a recarsi in città per effettuare i loro acquisti ed assegnava alle città il monopolio della produzione artigiana.

Tecnologia. Era proibito utilizzare certi strumenti e macchinari che potevano causare un eccesso di produzione; per evitare ciò si effettuavano controlli sul numero delle macchine utilizzate in una bottega.

- Commercio. Si faceva divieto di vendere al di sotto di un prezzo minimo fissato dalla corporazione. Dietro pressione dei maestri delle corporazioni, i reggenti delle città introdussero la proibizione per tutti di vendere beni provenienti da altre regioni se non durante i giorni di mercato. I contadini che erano sotto la giurisdizione delle città erano tenuti a portare i loro prodotti al mercato cittadino perché fossero venduti a prezzi stabiliti. Essi non potevano venderli a mercanti stranieri prima che fosse trascorso un certo lasso di tempo.

Tutte queste regole miravano a dare un vantaggio commerciale permanente alle corporazioni per il fatto che il numero di artigiani in ogni settore e la quantità di beni prodotti erano tenuti sempre inferiori alla domanda. In altre parole, i monopoli cittadini avevano come obiettivo un mercato di prodotti artigiani dominato dall’offerta. Questo permetteva loro di fissare il più alto prezzo possibile soprattutto nei confronti dei contadini che, essendo produttori isolati, non avevano il potere contrattuale delle corporazioni cittadine. I contadini e gli stranieri erano anche soggetti a tasse sul commercio da cui gli abitanti della città erano esenti del tutto o in parte.

Il risultato fu che le risorse furono convogliate verso le città che divennero centri opulenti dotati di splendidi edifici, a spese della gran massa della popolazione che viveva nelle campagne. Tuttavia, il monopolismo produce i germi della rovina economica e quelle regioni in cui si trovavano le città più ricche (Italia, Francia) sarebbero andate incontro alla decadenza o sarebbero passate dai monopoli cittadini ai monopoli del sovrano nel tentativo di promuovere uno sviluppo industriale illusorio.

 

Monopoli reali (^)

Dal XIV e XV secolo in poi  signori feudali più potenti in Europa iniziarono a formare una rete amministrativa sulla cui base fu data vita successivamente allo stato centrale.
Questo fatto è chiaro soprattutto in Francia dove il re, per far eseguire la sua volontà, si affidò agli intendants des provinces, persone spesso reclutate fra la classe dei mercanti che rinunciavano al loro commercio e si ponevano al servizio della corona.
Il loro compito era quello di amministrare e regolare la vita sociale, concentrandosi soprattutto sugli aspetti economici della produzione e del commercio, da cui il re e anche gli intendants estraevano i mezzi per esistere e operare.

Al fine di convogliare risorse verso la corona e verso il nascente apparato statale, gli intendants suggerirono l’introduzione di disposizioni che riguardavano tutti i campi di attività economiche, considerandoli come privilegi di competenza del potere e che venivano dati in concessione dietro pagamento.
Chiaramente, gli artigiani e i commercianti erano interessati a pagare per queste concessioni a patto che fossero date loro in esclusiva. Così, godendo di una posizione monopolistica, essi potevano a loro volta trasferire i costi agli utenti e consumatori, sicuri al tempo stesso di un guadagno continuo e rilevante data l’assenza di concorrenti.

Questa situazione fu resa possibile attraverso atti o lettere della corona che, in molti casi, semplicemente confermavano o sancivano le pratiche restrittive delle corporazioni. Gli obiettivi generali di questa collusione tra il potere centrale emergente rappresentato dal re e le corporazioni locali erano quelli soliti, vale a dire:

Ridurre la concorrenza

- fissando d’autorità il prezzo, ad esempio con riferimento alla vendita di ogni panno di stoffa commercializzato nel regno o stabilendo il salario massimo che poteva essere pagato ai lavoranti;

- fissando la quantità che poteva essere prodotta ingiungendo, ad esempio, di ridurre il numero delle ruote nella bottega di un vasaio o il numero dei telai nella bottega di un tessitore.

Sopprimere la concorrenza

- concedendo patenti all’inventore di un nuovo strumento e quindi garantendogli, per un certo periodo di tempo, un monopolio, sanzionato ufficialmente, nell’uso e nella commercializzazione della sua scoperta;

- assegnando ad alcuni individui “diritti” monopolistici di svolgere una qualche attività economica (ad es. macinare il grano, sfruttare le miniere, produrre un certo articolo) all’interno di un certo territorio o sull’intero reame;

- riservando alle manifatture del re i “diritti” esclusivi di intervento e di amministrazione specialmente in industrie attinenti alla guerra (ad es. la produzione di munizioni come monopolio reale).

I guadagni da parte di coloro che godevano di queste pratiche monopolistiche erano, in alcuni casi, enormi. Se esaminiamo solo il monopolio del sale di cui disponevano i re di Francia, nel 1523 le entrate ammontavano a circa 460.000 lire tornesi. Nel 1607 le entrate risultavano essere oltre 6 milioni di lire tornesi; nel 1641 erano arrivate all’incredibile somma di 20 milioni di lire tornesi. Se includiamo anche altre fonti di reddito monopolistico, alla fine del regno di Louis XIII (1643) il totale delle entrate del re sembra raggiungesse la cifra annuale di 80 milioni di lire tornesi. (si veda John U, Nef, Industry and Government in France and England, 1540-1640, prima edizione 1940).

Per avere una idea di quante ricchezze le pratiche monopolistiche possano convogliare nelle casse dello stato è conveniente confrontare quelle cifre con quelle del regno Inglese dove i re non avevano al loro servizio una macchina statale come quella esistente in Francia, capace di monopolizzare le risorse e di venderle ad un prezzo molto elevato o di assegnarle, dietro pagamento di una cifra fissa, al maggiore offerente o ad amici e seguaci che si comportavano in maniera ugualmente sfruttatrice.

Nel decennio 1630-1640 le entrate annuali del re d’Inghilterra erano intorno alle 660.000 sterline, equivalenti a circa nove milioni di lire tornesi. Anche tenendo conto del fatto che l’Inghilterra e il Galles avevano un terzo degli abitanti del regno francese, è evidente che le pratiche monopolistiche erano molto più estese in Francia a tal punto da procurare alla corona, in proporzione, un reddito quasi tre volte più elevato.
Comunque, anche in Inghilterra secondo una stima che fa riferimento al 1621, esistevano circa 700 monopoli reali istituiti dagli Stuarts con il risultato di spingere al rialzo i prezzi di molti beni (quali le candele, il sapone, il cuoio, il sale, il pepe) e di convogliare risorse verso il re (si veda Christopher Hill, The Century of Revolution 1603-1714, seconda edizione 1980).

Maggiori erano le entrate della corona, minori risultavano le risorse disponibili a imprenditori e commercianti non monopolisti per dare avvio a nuove imprese economiche o ai consumatori per soddisfare bisogni in un modo più conveniente ed adeguato.
Ma, contrariamente a quanto stava avvenendo in Francia, gli interessi imprenditoriali e commerciali che avevano una voce nel Parlamento Inglese già nel 1640 avevano eliminato quasi tutti i monopoli industriali. È appropriato affermare che nell’Inghilterra del XVII secolo il clima generale, dalla persona comune fino ai membri della House of Commons e della magistratura, era in maniera crescente contrario a qualsiasi interferenza d parte del re nelle faccende economiche delle persone.

Ecco perché la Rivoluzione Industriale non ebbe luogo in Francia, in quanto il pre-requisito  essenziale, la libertà di impresa e di commercio, era là ampiamente assente.
In Inghilterra invece le persone erano riuscite a produrre le condizioni materiali e culturali per mettere da parte i monopoli e per dare anche alla persona comune una certa libertà d’azione. Il risultato sarà che quelle persone in Inghilterra diventeranno, almeno fino a quando tali condizioni saranno presenti, le più industriose e prospere della terra.

 

Una tregua dai monopoli (^)

Dal secolo XVII fino a quasi la fine del secolo XIX il regno Inglese divenne una regione in cui i monopoli e le pratiche monopolistiche non furono accettati passivamente. Come messo in luce da Max Weber, la politica del re di favoritismo monopolistico fu contrastata per decenni dai Puritani nel Long Parliament e anche dopo “al grido di battaglia ‘abbasso i monopoli’.” (Max Weber, General Economic History, 1919-1920). Questo non vuol dire che i monopoli cessarono di esistere in Inghilterra. Infatti nel 1604 fu istituita quella che sarebbe diventata la più monopolistica organizzazione economica del regno, e cioè la Banca d’Inghilterra. Oltre a ciò, vi era la East India Company che, nel corso della sua lunga storia, ricevette poteri monopolistici o semi-monopolistici nel commercio tra l’India e l’Inghilterra.

Ad ogni modo, nel suo complesso, la libertà di produzione e di scambio prevalse in tale misura che una nuova società industriale poté emergere con nuove opportunità e anche con nuove sfide. La differenza quindi rispetto ad epoche precedenti e ad altre regioni della terra, era che adesso il campo era aperto, in una misura mai raggiunta precedentemente, a praticamente tutti coloro che avessero iniziativa ed energia. Qualora queste qualità fossero presenti, le risorse materiali sarebbero arrivate con tutta probabilità.

Questo è ad esempio il caso esemplare del barbiere Richard Arkwright che ebbe l’idea e l’energia di utilizzare il telaio meccanico a fini industriali e impiegò con profitto gli investimenti che convergevano verso quella applicazione, diventando nel corso del tempo uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra. Il suo tentativo di brevettare il telaio meccanico fallì a causa dell’opposizione di altri produttori e per il fatto che la macchina non era una sua invenzione ma, come è quasi sempre il caso, il risultato di molte menti e di molte mani, ognuno introducendo migliorie e trovando applicazioni economicamente vantaggiose e capitali finanziari per lo sfruttamento produttivo.

Per cui, la mancanza di sostegno da parte del potere e l’assenza di simpatie da parte della gente per i monopoli resero possibile mettere in atto un processo di continuo sviluppo personale e sociale che fu indirizzato soprattutto a:

Sfruttare opportunità imprenditoriali. La possibilità di avviare una impresa commerciale senza essere ostacolati dal potere risultò in una serie di attività economiche volte a soddisfare, per quanto possibile e all’interno dei vincoli tecnologici, i bisogni delle persone. Questo è il tempo in cui, oltre a imprese a carattere individuale, gruppi di persone si associarono per costruire ferrovie, canali e nuove strade per il trasporto di beni e passeggeri. E quando arrivarono nelle città l’elettricità e il gas molte compagnie furono fondate per offrire tali servizi. Se facciamo riferimento agli Stati Uniti, nella città di New York prima del 1884 vi erano 6 compagnie del gas in concorrenza tra di loro e nel 1887 sei compagnie elettriche furono formate. Imprenditori erano anche attivi nei servizi postali e anche i fari per le navi furono eretti e gestiti come imprese commerciali facendo pagare un contributo alle navi che entravano nel porto.

Risolvere problemi sociali. La produzione industriale generò anche problemi quali le cattive condizioni sanitarie delle persone che si affollavano nelle città. Inoltre la vita in città e la crescita dell’informazione scritta richiedevano un minimo di alfabetizzazione da parte di tutti. Per affrontare questi problemi, singoli individui e associazioni fondarono ospedali, aprirono scuole, stabilirono società di mutuo soccorso che si preoccupavano di offrire cure mediche e si occupavano del miglioramento morale e culturale delle persone, dell’assistenza finanziaria e anche dell’aiuto spicciolo. La ricchezza crescente permise anche di allocare fondi per la vecchiaia a cui arrivava un sempre maggior numero di persone. In altre parole, molti erano disposti a mettere da parte denaro, energie e tempo per risolvere ogni tipo di problema.

In generale, non solo non era ritenuto necessario attendere l’intervento statale ma era anche considerato inappropriato che lo stato intervenisse. Il solo compito ad esso riservato era quello di guardiano contro ogni attacco alla vita e alla proprietà delle persone; e anche ciò non era un qualcosa accettato da tutti, considerando che quando nel 1829 Robert Peel introdusse per la città di Londra un corpo di polizia finanziato dallo stato (la London Metropolitan Police) l’opposizione risultò abbastanza forte.

Comunque, come le libere città si erano fatte convincere dagli allettamenti del re e avevano barattato la libertà interna con i privilegi commerciali su un territorio più vasto, così ora era la volta degli imprenditori cedere la libertà di produrre e commerciare sul mercato mondiale (laisser-faire e laisser-passer) in cambio dell’assicurazione di barriere doganali a protezione del mercato nazionale. E dopo ciò fu la volta dei lavoratori di chiedere leggi a protezione dei salari, dell’occupazione e delle condizioni di lavoro della categoria, contro nuovi venuti (immigrati) e nuove leve (giovani lavoratori).

Queste richieste che una volta sarebbero state considerate come privilegi corporativi furono viste, a partire da un certo momento, come diritti legittimi che lo stato nazionale era tenuto a promuovere per i propri sudditi.
Per cui alla fine del XIX secolo la breve tregua dai monopoli stava per finire e ci si avviava verso una forte ripresa delle pratiche monopolistiche.

 

La ripresa dei monopoli: i monopoli gestiti dallo stato (^)

È davvero degno di nota ma anche del tutto comprensibile il fatto che lo stesso modello storico si riproduca non appena quelli che erano i motori dell’innovazione diventano forze della conservazione. Gli artigiani emancipati dal giogo feudale che avevano fondato libere città, una volta diventati ricchi e potenti iniziarono a difendere la loro ricchezza attraverso leggi (imposte dalla città o per mezzo del sovrano) che limitavano la concorrenza e che li ponevano come produttori e mercanti monopolistici.

Lo stesso avvenne con gli imprenditori della Rivoluzione Industriale. Gli spiriti liberi e forti della prima fase della industrializzazione inglese divennero, lentamente ma inesorabilmente, individui ricchi timorosi della concorrenza da altre regioni di nuova industrializzazione come la Germania.
Essi trovarono uomini politici ricettivi i quali, con l’estensione del suffragi politico facevano sempre più affidamento per essere rieletti sul favore dei soggetti nazionali e, specialmente, dei gruppi più organizzati, e cioè gli industriali, i commercianti, i finanzieri e i lavoratori nazionali inquadrati nei loro sindacati.

Adam Smith ha rimarcato che: “Le persone di uno stesso commercio raramente si riuniscono per motivi di svago o divertimento senza che la conversazione non finisca in una cospirazione contro il pubblico o nell’escogitare qualche artificio per aumentare i prezzi.” (La Ricchezza delle Nazioni, Libro I, Capitolo X).
Egli consigliava quindi i governanti statali di non facilitare in alcun modo la formazione di associazioni commerciali ed era, ad esempio, contrario al mantenimento di registri pubblici che elencassero apertamente tutti coloro che facevano affari in un certo settore.

La realtà è che i governanti non solo promossero ma resero obbligatoria la registrazione di tali associazioni di uomini d’affari in pubblici registri; e quella pratica fu successivamente estesa alle associazioni di lavoratori. Alla fine, il Grande Padronato (Big Business) e il Grande Sindacato (Big Labour) si allearono (alternativamente o assieme) al Grande Stato e fecero dei monopoli e delle pratiche monopolistiche la regola.
La ripresa dei monopoli, almeno in Inghilterra, iniziò non nel settore industriale ma nel campo dei cosiddetti servizi pubblici (salute, istruzione, assistenza sociale, trasporti) e utilità pubbliche (gas, elettricità e, in epoca successiva, telefoni, radio e televisione). Essa sarà portata avanti per decenni a partire dalla fine del XIX secolo fino al momento in cui essi divennero tutti, in pratica, monopoli statali.

Il fatto strano che è stato volutamente ignorato dagli storici al servizio dello stato è che tali servizi e utilità, dietro l’impulso di individui e associazioni quali ad esempio società di mutuo soccorso, benefattori, attivisti sociali, o semplici imprenditori, non solo erano stati avviati e stavano funzionando abbastanza bene se si considera il livello tecnologico e le risorse disponibili a quell’epoca, ma stavano andando di bene in meglio. Il modo in cui erano organizzati e gestiti stava contribuendo a rendere ogni individuo sempre più in controllo della sua vita in quanto le persone partecipavano con le loro risorse alla formazione e al funzionamento di queste agenzie di servizio.  

La storia va brevemente riassunta. Nel 1877 vi erano in Inghilterra 2.7 milioni di associati a società di mutuo soccorso che fornivano servizi assistenziali. Nel 1897 gli associati erano diventati 4.8 milioni. Nel 1910 la cifra era passata a 6.6 milioni. Se includiamo i membri delle associazioni di assicurazione volontaria che non erano registrate, emerge che almeno 9 milioni di persone erano coperte da assistenza sociale (su una popolazione di 36 milioni di persone con 8 milioni di nuclei familiari) e il numero cresceva ogni anno, in media di oltre centomila associati. A quel punto, nel 1911, il governo “liberale” di Lloyd George introdusse, contro l’opposizione della classe lavoratrice, l’allora impopolare Legge sulla Assicurazione Nazionale che rendeva obbligatoria l’assicurazione per 12 milioni di persone. (si veda David G. Green, Reinventing Civil Society, IEA, 1993). È allora appropriato affermare che lo stato intervenne proprio quando le associazioni volontarie stavano raggiungendo lo stesso risultato che veniva imposto per legge dallo stato. 
Lo stesso è avvenuto con l’istruzione e la sanità.

Durante il secolo XIX l’istruzione divenne uno dei punti focali di intervento da parte di molte persone, dai socialisti utopisti come Robert Owen a studiosi quali il Reverendo Richard Dawes e a molti attivisti sociali e filantropi. Scuole di ogni tipo, scuole delle dame della carità, scuole a pagamento, scuole quacchere, scuole anglicane, collegi per lavoratori, istituti meccanici e così via si svilupparono dappertutto in Inghilterra per soddisfare le richieste di una popolazione affamata di alfabetizzazione e di conoscenze. La prima indagine comprensiva sull’istruzione condotta nel 1818 mostrava che il 7% dell’intera popolazione frequentava una qualche forma di scuola. Dieci anni dopo una seconda indagine mostrava che il numero di coloro che frequentava un corso di studi era raddoppiato. Nel 1861 la Commissione Newcastle dopo aver fatto ricerche su quanti bambini ricevevano una educazione formale costatò che la cifra era, in Inghilterra, del 95,5%. Lo stesso può dirsi degli Stati Uniti dove, verso la metà del XIX secolo, l’alfabetizzazione negli stati del nord copriva il 90% della popolazione.

Anche in presenza di una tale tendenza verso l’istruzione volontaria universale lo stato ritenne necessario intervenire e monopolizzare il campo istituendo scuole statali finanziate attraverso la tassazione obbligatoria e introducendo diplomi certificati dallo stato come il solo documento valido per molti impieghi. Questo portò alla fine delle scuole a pagamento e di quelle gratuite sostenute attraverso la beneficenza; sopravvissero solo come scuole indipendenti le cosiddette “public schools” che sono le scuole della classe dirigente inglese. Tutti gli altri desiderosi di apprendere finirono per iscriversi in una scuola gestita dallo stato.

Per quanto riguarda la dotazione di servizi sanitari, istituzioni religiose e caritatevoli avevano provveduto, nel corso della storia, alle persone povere in maniera volontaria, ricevendo da parte di ricchi benefattori donazioni da usare a fini di assistenza. Durante il secolo XVIII furono costruiti a Londra cinque nuovi ospedali attraverso il sostegno finanziario di alcune ricche famiglie (come i Buxton, i Barclay, i Cherrington, gli Hanbury) e con l’aiuto di piccoli sostenitori noti come “sottoscrittori delle cinque ghinee”. Altri ospedali furono fondati in maniera simile in altre città inglesi durante il XVIII secolo, ma nulla in confronto a quello che avvenne nel secolo successivo. Infatti, a Londra, durante il secolo XIX, furono costruiti trentasei ospedali (ce ne sono ora in tutto sessantaquattro) sostenuti attraverso pubbliche sottoscrizioni o attraverso donazioni di ricchi signori. (si veda James Bartholomew, The Welfare State we’re in, 2006).

Con riferimento all’assistenza medica fuori dell’ospedale, esisteva un sistema articolato in base alle decisioni e alle possibilità di pagamento degli individui. Alcuni pagavano un onorario al dottore in base al reddito (calcolato secondo il livello dell’affitto). Alcuni ricevevano assistenza gratuitamente con il sostegno delle organizzazioni caritatevoli. Alcuni erano coperti attraverso schemi di pre-pagamento che erano come una assicurazione, con una somma annuale pagata a rate mensili. In questo modo la professione medica rimaneva una professione indipendente e i suoi membri prosperavano in base alla qualità dei servizi resi. E i dottori erano scelti dai pazienti che, attraverso un pagamento diretto o indiretto, sostenevano la professione e controllavano la competenza, onestà e disponibilità dei suoi membri (si veda David Green, Reinventing Civil Society, 1993).

Con l’assorbimento monopolistico da parte dello stato dei servizi educativi e sanitari, insegnanti e dottori divennero salariati dello stati, sicuri nel loro impiego qualunque fosse la qualità (o mancanza di qualità) del loro servizio.
Quello che ne seguì fu che tutte le associazioni volontarie e caritatevoli che provvedevano a quei bisogni furono o sciolte o assorbite dallo stato che divenne il fornitore monopolistico attraverso istituzioni quali il National Health Service in Inghilterra. Ciò ha distrutto non solo la possibilità di scegliere ma anche quella di imparare a diventare un essere umano responsabile, capace di allocare risorse nella maniera più ragionevole ed efficace. Questo diventava un compito riservato agli uomini politici, con i risultati che si vedranno tra breve.

La ripresa dei monopoli riguardò non solo i servizi pubblici ma anche le pubbliche utilità. Le varie compagnie commerciali che fornivano servizi in concorrenza tra di loro in una città iniziarono ad essere municipalizzate e poste sotto il controllo dell’amministrazione comunale. Per capire come si svilupparono le cose possiamo fare riferimento al caso documentato delle compagnie del gas e della luce di Baltimora negli Stati Uniti. Nel 1880 vi erano tre compagnie del gas che operavano in concorrenza ma nel 1890 i legislatori del Maryland introdussero un decreto che assegnava alla Consolidated Gas Company un monopolio di 25 anni nella fornitura del gas alla città in cambio di un pagamento al comune di 10.000 dollari all’anno e del 3% di tutti i dividendi. Come i consumatori potessero trarre beneficio dall’istituzione di un tale monopolio è molto difficile da capire. Così era come tornare indietro al feudalesimo e alle pratiche predatorie dei re francesi e inglesi di una epoca passata.

Con l’ascesa degli stati nazionali questi tipi di intervento si moltiplicarono in un crescendo che portò come risultato, praticamente dappertutto nel mondo e in meno di un secolo, allo stato come proprietario o controllore monopolistico di tutte le utilità pubbliche (gas, elettricità, acqua, posta, telefoni, ferrovie).
Parallelamente a ciò, le pratiche monopolistiche erano introdotte anche in ogni tipo di impresa, industriale o agricola. E qualcosa va detto riguardo al modo subdolo e ingannevole con cui tale processo è stato messo in atto.

 

La crescita dei monopoli: i monopoli prodotti dallo stato (^)

Una paura mitica e fallace crebbe durante la seconda metà del secolo XIX, alimentata da coloro che erano a favore dello statismo presentato come socialismo; e la paura era che il libero mercato avrebbe inevitabilmente finito per essere dominato da un numero ridottissimo di imprese monopolistiche.

Coloro che sostenevano tale posizione stavano semplicemente confondendo la crescita nelle dimensioni delle imprese dovuta a qualche possibile vantaggio tecnologico e commerciale legato alle economie di scala con l’esistenza di monopoli. Il fatto è che le dimensioni delle imprese può cambiare in relazione ad una serie di variabili quali le dimensioni del mercato in cui esse operano e la tecnologia disponibile. In ogni caso, è bene non cadere in due errori quali:

- pensare che l’impresa moderna sia inevitabilmente una grande impresa;

- pensare che una grande impresa debba essere inevitabilmente una impresa monopolistica.

È davvero un notevole inganno assimilare grandi dimensioni con modernità e monopolio. Ciò rivela una profonda ignoranza delle dinamiche socio-economiche.
In realtà, le dimensioni, in sé e per sé, non sono un segno necessario e sufficiente che l’impresa sia economicamente efficiente o che siamo in presenza di un monopolio. Con riferimento ai monopoli, potremmo avere grandi imprese che si fanno una notevole concorrenza sul mercato mondiale e imprese relativamente piccole che monopolizzano il mercato nazionale dietro lo schermo di tariffe e concessioni statali.

Comunque, come ragazzini che si lasciano impressionare più dall’apparenza che dalla sostanza, gli uomini politici, i giornalisti e gli intellettuali statali iniziarono a promuovere campagne d’opinione contro le grandi imprese, ricevendo in molti casi aiuto finanziario da quelle imprese che si sentivano sottoposte a quella che esse stesse chiamavano “eccessiva” concorrenza, data dall’emergere di altre organizzazioni produttive più dinamiche e innovative.

Infatti alcune imprese altamente competitive riducevano costi e prezzi a spese di altre imprese e a beneficio dei consumatori. Certamente esse si comportavano così in modo da sopravvivere e dominare il mercato; e in un mercato aperto alla concorrenza questo è quanto ogni impresa dovrebbe fare per rimanere in commercio, considerato che nuovi concorrenti, con prodotti migliori e a un prezzo più conveniente, rappresentano un presenza potenziale costante. Questo è il motivo per cui nessuna impresa può mai dominare un intero settore per un lungo periodo solo sulla base di prezzi migliori perché qualcuno, da qualche parte, apparirà con simili prodotti a prezzi ancora più allettanti. Questa è l’esperienza storica, a meno che non vi siano leggi statali che riducano o eliminino la concorrenza; e questo è proprio quello che molte imprese decotte chiedevano e lo stato ha prontamente esaudito la loro richiesta.

Lo storico dell’economia Gabriel Kolko in un testo stimato ma non molto conosciuto ha sottolineato proprio questo aspetto qualificandolo con il nome di “capitalismo politico”. (Gabriel Kolko, The Triumph of Conservatism 1900-1916). Secondo Kolko, “nonostante le molte fusioni e l’ampliamento delle dimensioni assolute di molte imprese, la tendenza dominante nell’economia americana all’inizio di questo secolo [il secolo XX] era verso una concorrenza crescente.” Questo non era quanto le corporazioni volevano ed ecco perché esse miravano all’intervento dello stato federale per “regolare” il mercato in una maniera che garantisse la loro sopravvivenza e i loro guadagni nel lungo periodo. Per cui, “contrariamente a quanto sostenuto in maniera concorde dagli storici non era l’esistenza del monopolio che causò l’intervento del governo federale  nell’economia ma la sua assenza.” (Gabriel Kolko, The Triumph of Conservatism 1900-1916).

Infatti, praticamente tutti gli interventi statali nell’economia ebbero l’effetto di produrre monopoli e di favorire pratiche monopolistiche. Anche quelli che erano presentati come misure contrarie.
Prendiamo ad esempio lo Sherman Act (1890) negli Stati Uniti. L’intenzione conclamata era quella di combattere la collusione nella fissazione dei prezzi da parte di molte imprese distinte che operavano nello stesso settore. Quello a cui portò, in realtà, fu che, per evitare di cadere nell’inosservanza della legge, molte imprese si associarono e si consolidarono sotto una unica direzione. E così grandi conglomerate emersero in numero maggiore per fare ancora più facilmente e in piena legalità quello che era fatto prima in maniera precaria e non sempre con successo, e cioè la fissazione di un prezzo di vendita comune.

Una soluzione semplice al problema sarebbe stata quella di aprire il mercato americano alle imprese di tutto il mondo (attuali e potenziali) rendendo impossibile il compito di colludere nella fissazione dei prezzi su scala mondiale. Ma l’esatto opposto avvenne per ragioni che saranno chiarite tra breve.
Lo Sherman Act, oltre a dare un grande impulso alle fusioni su grande scala, vale a dire alla combinazione di molte piccole e medie imprese in gradi conglomerate, fece capire alla comunità degli affari che c’era qualcosa da guadagnare per i promotori e i sottoscrittori di tali fusioni. Il guadagno per finanzieri che operavano in vista della formazione di nuove conglomerate “spesso ammontava dal 20 al 40 per cento delle azioni emesse.” (si veda Harold Faulkner, The decline of Laissez-Faire 1897-1917, 1951). È sulla scia di questi profitti straordinari che, verso la fine del secolo XIX, gli industriali (coloro che fondavano imprese e commercializzavano beni) si trasformarono in o vennero dominati da finanzieri (coloro che controllavano la liquidità e commercializzavano azioni).

In questo nuovo scenario dominato da conglomerate e da finanzieri, i monopoli arrivarono non appena lo stato introdusse i tasselli mancanti per il loro emergere ed esistere, e cioè le tariffe e i brevetti.
Questo è un punto su cui va fatta molta chiarezza: una conglomerata non protetta da tariffe e brevetti è una impresa come tante altre anche se è la sola al mondo a produrre un certo bene o a fornire un certo servizio. La sua supremazia assoluta, se questo fosse mai possibile per un lungo periodo di tempo, deriva dal fatto che essa è la migliore in termini di prezzo/beneficio, di affidabilità dei prodotti e di accettazione da parte del consumatore. In tal caso la sua posizione è del tutto meritata e non può essere definita monopolistica, posto che non vi siano blocchi istituzionali all’ingresso di nuovi produttori. Impiegare il termine monopolio in quel caso specifico sarebbe come chiamare monopolisti Frank Sinatra o Luciano Pavarotti perché essi avevano una voce straordinaria e le loro registrazioni si vendevano in gran numero.
Se esaminiamo la situazione negli Stati Uniti, alcune conglomerate divennero monopoli sul mercato interno o in molti dei suoi segmenti quando lo stato federale introdusse, accanto e nello stesso anno dello Sherman Act, la tariffa McKinley (1890).

La tariffa McKinley innalzò il livello medio dei dazi protezionistici del 50% con dazi particolarmente elevati sui tessili, il ferro, l’acciaio e i prodotti agricoli. Successivamente fu introdotta la tariffa Wilson-Gorman (1894) che abbassava i dazi a un livello medio del 40% ma questa fu prontamente sostituita con la Tariffa Dingley (1897) che spingeva i dazi a livelli incredibili (57% in media) (si veda: A.G.Kenwood e A.L.Lougheed, The Growth of the International Economy 1820-2000, 1992).
Fu allora che Henry O. Havemeyer, presidente dell’American Sugar Refining Company fece la sua famosa affermazione che: “La madre di tutte le conglomerazioni è la tariffa protettiva … Vantaggi economici collegati alla fusione di vasti interessi nello stesso settore di affari rappresentano un grande incentivo alla formazione di conglomerate, ma questi sono di gran lunga inferiori rispetto ai vantaggi assicurati come protezione sotto la tariffa commerciale.” (Industrial Commission, Report, I, 9, Washington, 1900-1902).

Il fatto che una simile affermazione provenga da un uomo d’affari che ricavava un vantaggio dal protezionismo e aveva quindi interesse a sostenere l’esatto opposto, dovrebbe farci riflettere anche sul perché i dazi sono introdotti e sono mantenuti così fortemente. Le tariffe erano una buona fonte di introiti per lo stato, rappresentando, nel 1900, più di un terzo delle entrate (233 su circa 670 milioni di dollari). Come è stato indicato da uno storico dell’economia con riferimento alla tariffa Dingley: “Non si può avanzare nessuna giustificazione plausibile per essa tranne che un deficit del Tesoro federale durante i precedenti quattro anni.” (Harold Faulkner, The Decline of Laissez-Faire 1897-1917, 1951). Il fatto che i dazi favoriscano anche la formazione di monopoli nazionali è per gli stati nazionali territoriali o un dettaglio irrilevante o addirittura un risultato positivo se l’obiettivo politico è quello della supremazia nazionale che si suppone conseguibile attraverso l’esistenza di imprese nazionali monopolistiche.

L’imposizione di tariffe protezionistiche da parte di uno stato costituisce il pretesto per i governanti di altri stati per introdurre a loro volta barriere protezionistiche e questo è proprio quello che è avvenuto in Europa dopo l’introduzione della tariffa Dingley, quando la maggior parte dei governi europei hanno innalzato le tasse sulle importazioni con l’eccezione dei governi inglese, danese e olandese.
Le misure tariffarie unite alla concessione di brevetti danno ai produttori i mezzi legali per imporre prezzi monopolistici, il che non potrebbe mai avvenire in un sistema di libero scambio e di accesso aperto a tutti nella produzione di qualsiasi bene. Non dovrebbe quindi sorprendere l’affermazione fatta dall’economista Fritz Machlup che “il nostro governo [il riferimento è al governo federale americano] ha fatto di più per creare il monopolio che per distruggerlo. Mi è sufficiente fare riferimento alle leggi sui dazi, alle leggi sulle grandi imprese, alle leggi sui brevetti, al grande numero di leggi su franchigie e licenze negli stati e nelle municipalità. Vi sono aspetti nel nostro sistema fiscale che incoraggiano la concentrazione.” (U.S. Senate, Hearings on Administrative Prices, 1959). Si potrebbe inoltre aggiungere che lo stipulare molti contratti governativi di enorme importo per l’acquisto di beni e servizi con un numero ristretto di imprese o il trasferire fondi statali per la ricerca a pochissime imprese sono fattori che introducono privilegi inaccettabili e favoriscono l’emergere di monopoli.

Con riferimento a quest’ultimo aspetto, il presidente del Sottocomitato sull’antitrust e il monopolio del senato americano, senatore Estes Kefauver, sottolineò il fatto che “nel 1959, 100 grandi imprese avevano ricevuto l’80% dei fondi per la ricerca pur coprendo solo il 41% delle vendite nel loro settore di mercato.” (Estes Kefauver, In a Few Hands, 1965).
Tutto ciò mostra chiaramente che una concorrenza libera e onesta non è nell’agenda del governo federale americano e, si potrebbe aggiungere senza esagerare o essere lontani dal vero, della maggior parte dei governi esistenti al mondo.
Il carrozzone di coloro che erano interessati alle pratiche monopolistiche era così forte e ben organizzato e contava su così tante persone nei loro vari ruoli che era praticamente inarrestabile. Esso includeva:

- i governanti statali interessati alle entrate derivanti dai dazi e al potere sopra gli altri stati attraverso una politica avente come obiettivo il danneggiare l’altrui economia;

- i finanzieri interessati ai guadagni straordinari derivanti dal promuovere fusioni di imprese;

- i sindacati dei lavoratori interessati in un mercato del lavoro garantito attraverso restrizioni all’immigrazione;

- gli industriali interessati a un mercato protetto delle merci attraverso tariffe e quote all’importazione e desiderosi di godere, per mezzo di brevetti, di privilegi esclusivi sulla vendita di certi prodotti;

- gli intellettuali nazionali e i giornalisti sciovinisti interessati a trovare senza tanto impegno un pubblico di ascoltatori e lettori attratti da messaggi emotivi di patriottismo economico incentrati sulla conclamata difesa delle classi meno abbienti.

Le pratiche monopolistiche escogitate e messe in atto dal Grande Stato in associazione con il Grandi Padronato e il Grande Sindacato portò alla creazione di cicli artificiali di espansione e di contrazione che generarono ulteriori squilibri e condussero, paradossalmente ma vero, a chiedere sempre maggiori interventi da parte dello stato, approfondendo in tal modo le pratiche monopolistiche.

Questo è quanto avvenne quando arrivò la Grande Depressione, che causò l’emergere pieno, negli Stati Uniti e in Europa, di un sistema economico di stati ultra nazionalisti e protezionisti dominati da attori monopolisti. Fu l’apoteosi del corporativismo.
La fine del laissez-faire, presentata e auspicata da Keynes in un famoso saggio (1926) era finalmente arrivata, celebrata con gioia immensa da intellettuali devoti allo stato. In sostanza ciò non era altro che il dominio completo dell’economia nazionale da parte dei monopoli nazionali sotto la protezione dello stato nazionale. La prima e la seconda guerra mondiale estesero al massimo il ruolo dello stato fino al punto in cui l’esistenza di monopoli gestiti o prodotti dallo stato fu accettata come un dato permanente e del tutto normale della vita economica moderna. In Gran Bretagna “questo processo fu stimolato dall’elaborato sistema di controlli economici, studiato per il tempo di guerra ma mantenuto in piedi fino alla fine degli anni '50, che limitava il ruolo del mercato come guida nella allocazione delle risorse. Il sistema era rafforzato dalla concentrazione di cinque industrie di base o pubbliche utilità in imprese a sfera nazionale e di proprietà statale. In entrambi questi casi il governo era un agente monopolistico, esattamente come lo era stato prima della guerra.” (Peter Goldman, Preface to Estes Kefauver, In a Few Hands, 1965).

Non solo i consumatori e i loro interessi erano scomparsi dalla scena ma essi erano diventati ostaggi di dinosauri in combutta tra di loro (stato-padronato-sindacato) i quali cospiravano apertamente contro il pubblico per imporre le loro pretese monopolistiche dietro la protezione della legge. Adam Smith che era abbastanza cinico riguardo al mondo degli affari non avrebbe mai immaginato a quale livello spaventoso di inganno sfrontato sarebbero arrivati i protagonisti dell’economia, pur definendosi ancora sostenitori della libera impresa e del libero mercato. La sola libertà fraudolenta che essi conoscevano era quella di limitare l’altrui libertà attraverso la richiesta di privilegi e sussidi.
I promotori dei monopoli potevano giustificare il loro agire in tal modo solo attraverso la diffusione di falsi convincimenti da parte di pseudo-intellettuali al loro servizio. Esaminiamo quindi brevemente le giustificazioni teoriche avanzate dagli economisti statisti per avvallare la necessità dell’esistenza dei monopoli.

 

La giustificazione per i monopoli (^)

Tutte le giustificazioni avanzate per l’esistenza dei monopoli sono state elaborate e presentate molti decenni dopo l’emergere delle pratiche monopolistiche. È quindi giusto affermare che esse sono più razionalizzazioni a posteriori di quello che era successo che non spiegazioni serie di quello che era inevitabile o necessario sulla base di principi economici razionali.

A partire dalla fine del secolo XIX o successivamente, in relazione alla realtà economica e culturale di ogni paese, le giustificazioni per i monopoli sono emerse da un clima di sfiducia generale verso il funzionamento del cosiddetto libero mercato. Ciò è molto strano se si considera che un vero libero mercato non è mai esistito in nessun luogo della terra. Eppure, quanto più lo stato interferiva con gli attori economici manipolando la moneta, limitando il commercio, imponendo regole alla produzione, tanto più questo preteso libero mercato era sottoposto a pesanti critiche in quanto considerato responsabile di tutti gli squilibri che, in realtà, erano causati dallo stato.

Questa confusione di responsabilità era favorita da intellettuali che, a causa della loro situazione di insegnamento in università statali, erano più favorevoli al potere statale da cui ricevevano il loro reddito che alla realtà della produzione e del commercio che essi consideravano volgare (il disprezzo per il lavoro manuale e per le attività economiche) e da cui essi si distanziavano sempre più.
In breve, l’idea del fallimento del mercato o dell’esistenza di imperfezioni di base nel funzionamento di un mercato non regolato divenne il dogma accettato della congregazione degli economisti. Esso era associato con l’altro dogma, che lo stato era il deus ex machina i cui interventi avrebbero risolto tutti i problemi in qualsiasi campo della vita personale e sociale, inclusa l’economia.

Il fatto è che, come è stato poco fa sottolineato, non solo un libero mercato non ha mai operato davvero in nessun luogo ma lo stesso concetto di “mercato” è un po’ fuorviante. Il “mercato” non esiste; ciò che esiste nella vita reale sono gli scambi tra gli individui. In realtà “mercato” è solo un termine conveniente che sostituisce la lunga espressione: “relazioni di scambio multiplo e generalmente impersonale tra gli individui aventi per oggetto beni e servizi.”
Se formuliamo il tema in questo modo, è chiaro che le imperfezioni e i fallimenti sono un fatto della vita di ogni individuo, che derivano da aspetti essenziali dell’essere umano quali:

- l’assenza di perfetta informazione
- la presenza di gusti personali

Queste sono caratteristiche che non possono essere eliminate in pratica e non possono essere ignorate in teoria posto che vogliamo rimanere all’interno di un discorso economico scientifico. Infatti, dovrebbe essere chiaro e ovvio a tutti gli esseri umani razionali e dotati di moralità che:

- nessuno, nemmeno un pianificatore centrale verso cui si suppone siano convogliati tutti i dati economici in maniera del tutto accurata e trasparente, avrà mai conoscenza perfetta di tutti i beni e servizi esistenti a un certo momento e la capacità di effettuare calcoli concernenti prezzi, costi, fattori tecnici e tutto ciò che è necessario per prendere decisioni razionali nel loro complesso. E anche se questo fosse miracolosamente possibile in un momento preciso, le decisioni prese sarebbero immediatamente superate da cambiamenti che hanno luogo continuamente nelle molteplici fasi dinamiche della produzione e del commercio e delle quali è impossibile effettuare registrazioni in tempo reale.

- i gusti degli individui riguardanti la loro vita personale non dovrebbero essere oggetto di recriminazione e non dovrebbero quindi rappresentare motivo per dichiarare che il mercato è imperfetto. Inoltre, se i miei gusti (cioè le mie scelte) mi portano a prendere cattive decisioni economiche, è molto probabile che io apprenda da questa esperienza a comportarmi diversamente. Ecco perché i cosiddetti “fallimenti del mercato” (che sono, nella realtà, cattive decisioni individuali nella sfera economica) sono l’espressione necessaria dello sviluppo personale e sociale. Essi non possono essere eliminati perché sono i mezzi pedagogici indispensabili attraverso cui le persone apprendono e sulla cui base le relazioni economiche e sociali migliorano e si sviluppano.

Eppure, la strana idea è emersa che i fallimenti del mercato potrebbero e dovrebbero essere corretti attraverso l’intervento politico. Questa convinzione si basa su premesse inconsistenti, e cioè che:

- le persone effettuerebbero la scelta migliore nel selezionare i rappresentanti incaricati di garantire il benessere politico di tutti, ma al tempo stesso sarebbero incapaci di operare scelte ragionevoli riguardo al loro vantaggio economico personale (persuasione di base: processo politico perfetto);

- i politici eletti avrebbero la piena capacità e la piena determinazione di effettuare le scelte economiche appropriate per tutti mentre noi non saremmo capaci di farlo per ciò che ci riguarda come partecipanti del processo economico (persuasione di base: mercato economico imperfetto).

Come sia possibile che i rappresentanti eletti abbiano conoscenza perfetta della realtà e una visione illuminata su cui basare decisioni che siano soddisfacenti per tutti è qualcosa che nessuno è in grado di spiegare a meno che non si introduca una formula politica magica secondo la quale i pochi sono destinati a guidare e a decidere per i molti. E, aggiungendo la beffa all’ingiuria, definiamo questa non molto attraente posizione: democrazia.
Ad ogni modo, mettendo da parte queste perplessità, esaminiamo quelle che sono le giustificazioni specifiche per l’intervento, che si presume necessario, dello stato nelle questioni economiche.
Esse sono basate sulla conclamata esistenza di:

Monopoli naturali. Monopoli naturali sono considerati esistere quando il costo di ingresso in un determinato settore e le economie di scala sono enormemente a vantaggio di un produttore di beni o fornitore di servizi estremamente grande. Questa situazione si riteneva esistesse, ad esempio, in riferimento a servizi quali il gas, l’elettricità, i telefoni e così via dove l’esistenza o l’emergere di un solo fornitore era considerato come il risultato naturale di pratiche economiche razionali. Secondo questa posizione, è nella natura dei beni forniti che ogni servizio di questo tipo sia avviato e gestito come un monopolio da un monopolista (di solito lo stato), evitando doppioni e sforzi che sarebbero diseconomici e realizzando economie di scala a vantaggio dei consumatori sotto forma di tariffe a basso prezzo.

Beni pubblici o collettivi. Beni pubblici sono definiti quei beni che sono goduti da tutti o da un largo pubblico, anche da individui che non pagano per il loro godimento, senza che se ne riduca la disponibilità generale. L’esempio classico è la sicurezza pubblica, garantita a tutti, almeno in teoria, senza tener conto se un individuo ha versato o no il suo contributo. Secondo gli economisti politici, questi beni non sarebbero forniti in una situazione di libero mercato in quanto nessuno pagherebbe per essi, preferendo goderne a spese degli altri. Questo è il motivo per cui, in base a questa posizione, si asserisce che tali beni devono essere forniti in regime di monopolio da una istituzione come lo stato che può finanziare la loro esistenza imponendo a tutti un contributo obbligatorio sotto forma di tasse.

Esternalità positive. Esternalità positive sono considerati quegli effetti benefici che risultano dalla fornitura di beni pubblici o da misure da cui tutti traggono un beneficio (ad es. istruzione, sanità, ecc.) anche coloro che non versano alcun contributo al riguardo. Per questo motivo, deve esistere un attore monopolista che raccoglie contributi obbligatori di modo che le esternalità positive continuino ad esistere e ad operare.

A queste giustificazioni teoretiche per l’esistenza di monopoli gestiti o prodotti dallo stato dobbiamo aggiungere un’altra convinzione che porta a pratiche monopolistiche e cioè che lo stato debba garantire un brevetto agli inventori altrimenti nessuna invenzione vedrà mai la luce del giorno. Tuttavia, invenzioni sono state fatte prima che l’idea di brevetti apparisse e invenzioni sono state fatte successivamente da persone come Benjamin Franklin che rigettò l’idea di brevettare il perfezionamento di una  stufa suggeritagli dal Governatore Thomas dichiarando che: “come noi godiamo grandi vantaggi dalle altrui invenzioni, dovremmo essere grati dell’opportunità di servire gli altri attraverso le nostre invenzioni; e questo dovremmo farlo liberamente e generosamente.” (Scritti di Benjamin Franklin, 1907). Se esaminiamo la realtà, i brevetti scoraggiano la creatività e restringono la nascita di nuove invenzioni in quanto congelano la possibilità che tutti offrano il loro contributo alla risoluzione di un problema specifico.

In sostanza, gli economisti al servizio dello stato cominciarono introducendo giustificazioni teoretiche a sostegno dell’intervento dello stato nell’economia (fallimento proclamato del preteso libero mercato) e, sulla base di ciò, finirono sia per giustificare l’esistenza di monopoli nei servizi collettivi e nei beni pubblici sia per stimolare la loro crescita in vari settori dell’economia dietro la protezione dei dazi e dei brevetti. E, incredibile ma vero, la difesa contro i monopoli fu affidata al più monopolista di tutti, lo stato centrale territoriale.

Per cui, la maggioranza delle persone pur opponendosi in teoria ai monopoli, sono del tutto inclini ad accettare in pratica l’esistenza di un monopolista (lo stato) che intervenga in ogni rapporto economico, eliminando o perturbando la libertà di produzione e di scambio. Questo è un chiaro segno di quanto la mente della persona comune possa essere distorta dalla propaganda continua di coloro che si proclamano esperti, anche quando essi diffondono pure e semplici idiozie.

Per iniziare a cambiare questa situazione di credula accettazione è indispensabile mostrare che queste giustificazioni sono non solo fallaci con riferimento alla realtà storica ma sono anche pretesti assurdi che favoriscono le peggiori pratiche monopolistiche. Questo smascheramento delle argomentazioni fallaci è tanto più necessario quanto più i monopoli hanno mostrato la loro bancarotta morale e materiale e stanno portando tutti in un mare di guai.

 

La bancarotta dei monopoli (^)

I monopoli sono ora in bancarotta sotto molti aspetti. Le giustificazioni avanzate per la loro esistenza appaiono ora, più che mai, come vuoti pretesti, basati su false premesse e che portano a risultati disastrosi.  Esaminiamo allora brevemente le false premesse e i risultati disastrosi che, congiuntamente, mettono in luce la bancarotta dei monopoli.
Le false premesse sono:

Fallacie storiche: l’invenzione dei monopoli naturali.
Come è stato precedentemente mostrato, durante il XIX secolo molte compagnie entrarono nel mercato dei servizi quali il gas e l’elettricità ed entrarono in concorrenza tra di loro per servire gli utenti. Fu solo in epoca successiva che le municipalità locali o lo stato centrale monopolizzarono questi servizi e li dichiararono monopoli naturali.
È proprio tipico degli storici devoti allo stato riscrivere la storia secondo le richieste del potere; il fatto rimane che la nozione di monopoli naturali si basa su una fallacia storica ed è per questo priva di qualsiasi valore scientifico. Inoltre, lungo tutta la storia, attori monopolistici hanno sempre favorito pratiche monopolistico da parte dei loro associati; per cui, pensare che il supremo monopolista, lo stato centrale territoriale, sia differente, non è solo ingenuità disarmante ma pura disonestà intellettuale.

Fallacie economiche: l’invenzione dei beni pubblici.
Uno degli aspetti principali del metodo scientifico è il rasoio di Occam che esige di non complicare l’analisi con distinzioni e aggiunte inutili (entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem). La separazione tra beni pubblici e beni privati appare essere proprio una di quelle distinzioni superflue, considerando che alcuni beni cosiddetti ‘pubblici’ sono acquistati ‘privatamente’ (ad esempio la sicurezza con guardie ‘private’ o l’istruzione con insegnanti ‘privati;) e alcuni beni cosiddetti ‘privati’ sono goduti da un largo pubblico (ad es. un edificio ‘privato’, un museo ‘privato’, un giardino ‘privato’ come quelli protetti dal National Trust che è una organizzazione ‘privata’ del Regno Unito che si occupa dell’ambiente ‘pubblico’). Si potrebbero elencare molti altri esempi che negano o gettano seri dubbi sulla validità di questa pretesa dicotomia che dovrebbe quindi essere abbandonata in quanto inutile.

Fallacie antropologiche: l’invenzione delle esternalità.
L’economista politico è una persona strana. Per spiegare questa stranezza uno scienziato sociale (Robert Frank, Passions Within Reasons, 1988) ha avanzato la tesi che la professione economica attrae persone con inclinazioni materialistiche o sviluppa in essi tendenze materialistiche sottolineando sempre, in ogni azione umana, l’obiettivo del massimo guadagno materiale. È quindi comprensibile perché gli economisti vedano l’essere umano come un registratore di cassa e perché, su tale base, essi abbiano inventato la ridicola nozione di esternalità che pretende che ogni beneficio derivante dall’azione di qualcuno si rifletta nei prezzi di mercato o in costi addossati a coloro che godono di queste cosiddette esternalità. In assenza di ciò, gli economisti politici pensano che il sistema economico cesserebbe di funzionare in quanto ognuno cercherebbe di sfruttare coloro che generano le esternalità positive. Quello che essi sembrano incapaci di realizzare è il fatto che continuamente gli esseri umani compiono azioni che arrecano beneficio ad altri (ad es. assistenza volontaria) o che arrecano beneficio a sé stessi in vista di far beneficiare anche altri (ad es. istruzione personale) o che arrecano beneficio a sé e indirettamente anche ad altri (ad es. curare la parte del giardino che dà sulla strada, dipingere la facciata) senza essere mossi da un guadagno economico diretto che o è inesistente o potrebbe essere difficile da ottenere. Il concetto di esternalità è quindi una idea totalmente sciocca priva di qualsiasi uso pratico se non giustificare la tassazione dello stato.

A queste false premesse dobbiamo aggiungere i disastrosi risultati dei monopoli, quali:

Corruzione morale. I monopoli gestiti e prodotti dallo stato sono il rifugio di dirigenti nominati sulla base della loro fede politica e di lavoratori assunti per fare piacere ad amici e a sostenitori o per soddisfare la domanda politica di occupazione. Per questi motivi i principi economici non si applicano a tali monopoli che possono quindi applicare prezzi monopolistici sotto la protezione della legge.

Arretratezza tecnologica. Protetti dalla concorrenza, queste industrie non hanno alcuno incentivo a escogitare e introdurre miglioramenti tecnologici, ma si accontentano di ripetere semplicemente gli stessi processi produttivi, sicure che nulla le scalzerà dalla loro posizione tranne un terremoto politico.

Dissesto finanziario. Le imprese di stato hanno accumulato dappertutto nel mondo enormi perdite che sono state coperte con il denaro dei contribuenti. L’assenza di competizione economica ha significato che non occorreva comportarsi razionalmente in materia finanziaria ma che bastava solo agire servilmente in termini politici.

Per il consumatore al cui servizio il sistema produttivo dovrebbe essere, le conseguenze pratiche dell’esistenza dei monopoli sono state:

Prezzi eccessivi. L’epoca migliore per i monopoli è stata quando i prezzi in molti settori economici (agricoltura, trasporti, acciaio, ecc.) erano fissati dallo stato (i cosiddetti ‘prezzi amministrati’) secondo le richieste del Grande Padronato e del Grande Sindacato che prendevano in considerazione solo le esigenze dei produttori, anche di quelli molto arretrati e inefficienti. Anche nei servizi gestiti dallo stato i prezzi erano di gran lunga superiori ai costi. A seguito delle privatizzazioni e della reintroduzione di un certo livello di concorrenza, essi sono scesi ma siamo ancora lontani da una scelta libera e piena, e quindi dalla mitica sovranità del consumatore. Infatti, anche dopo la denazionalizzazione dei monopoli statali, il prezzo di un biglietto del treno per un viaggio relativamente breve potrebbe essere più elevato di un biglietto d’aereo per una destinazione molto più lontana. E questo ha a che fare con l’assenza di una concorrenza piena e con la presenza di meccanismi politici di distorsione.

Cattivi servizi. Si racconta che in un paese dell’Europa dell’Est, quando i taxì erano monopolio statale le persone facevano la coda in attesa di una vettura libera; adesso, dopo la caduta del comunismo di stato e la fine delle forme più atroci di monopolio, i taxì sono di nuovo lì ad attendere gli utenti, e questo è come dovrebbe essere. Un cattivo servizio è stata la regola in molte imprese statali monopolistiche e non solo nell’Europa dell’Est. In Italia molte persone attendevano mesi prima di avere il telefono installato a casa loro e alcuni paesi del Mezzogiorno mancavano di elettricità anche negli anni ’70.  

Assenza di scelte. Sotto i monopoli non vi è varietà e non vi è personalizzazione nella fornitura di servizi o nella vendita di beni. Tutto ciò è in sintonia con l’idea di una società di massa popolata da consumatori di massa che sono trattati come mucche da spremere nelle mani del monopolista e devono conformarsi, per la soddisfazione di coloro che traggono profitto da una massa di docili consumatori e di sudditi passivi.

Il fatto che il consumatore non si sia ribellato prima a questa situazione disastrosa ha a che fare non solo con il potere di indottrinamento culturale, ma anche con una serie di motivi che contribuiscono a spiegare la persistenza perversa dei monopoli e soprattutto della madre di tutti i monopoli, lo stato. Questi motivi si riferiscono a due altri ruoli giocati da molti consumatori di beni e utenti di servizi:

I consumatori-utenti come lavoratori protetti. Il grande numero di persone occupate nelle imprese monopolistiche rappresenta una roccaforte che si oppone a qualsiasi cambiamento. Con il nobile pretesto di proteggere i lavoratori i membri dei sindacati hanno promosso e praticato il monopolismo, diventando, nel corso del tempo, uno dei peggiori agenti monopolistici dello statismo e cancellando, tutte le volte che è stato possibile, qualsiasi diritto dei consumatori e degli utenti.

I consumatori-utenti come cittadini assistiti. I monopoli sono il paradiso dell’assistenzialismo parassitario in quanto istituzionalizzano i privilegi, e cioè il vivere a sbafo sotto la protezione dello stato. Servizi e agenzie statali monopolistici hanno distribuito reddito a persone che non hanno offerto alcun contributo lavorativo o i cui contributi sono del tutto irrisori (pensioni di invalidità fasulle, sussidi clientelari, ecc.). Questo ha generato all’interno delle società industriali opulente una corsa all’assistenzialismo che non ha paralleli nella storia, il tutto qualificato con il nobile termine di “stato del benessere” (welfare state).

In sostanza, una larga parte dei consumatori-utenti sono stati comperati dallo stato per sostenere un sistema di privilegi e di iniquità dividendo con essi parte del bottino.

Potremmo addirittura dire che lo stato in sé stesso è diventato sempre più il parassita per antonomasia considerando che, ad esempio negli Stati Uniti vi sono più guardie di sicurezza pagate direttamente dalle persone che non poliziotti statali e che nel Regno Unito le organizzazioni volontarie coprono molti bisogni e sostengono molti progetti a cui, in base all’ideologia statale, dovrebbe provvedere lo stato utilizzando le entrate fiscali. Questi sono solo due esempi dello stato che scarica sugli altri i costi dei servizi, ma questi casi si stanno moltiplicando parallelamente all’innalzamento della pressione fiscale e all’abbassamento della qualità e quantità dei servizi offerti dallo stato.

Ad ogni modo una simile situazione non può durare all’infinito perché, presto o tardi la realtà dei problemi morali, tecnologici e finanziari ha la brutta abitudine di presentarsi e di distruggere le illusioni Dopo decenni in cui lo statismo è stato di moda e i monopoli sono stati presentati come un dato necessario della vita economica, adesso il clima culturale è cambiato. La concorrenza non è più una parola oscena. Noi siamo ancora circondati da pratiche monopolistiche ma esse non sono più accettate come il risultato di misure progressiste. E tuttavia, quello che non è ancora emerso è una analisi critica sistematica dei monopoli e del corporativismo in ogni sfera della vita, e questo rappresenterebbe il solo modo per andare finalmente oltre i monopoli.

 

Oltre i monopoli (^)

Sulla base di quanto è stato detto fin qui, andare oltre i monopoli significa procedere all’abolizione di tutti i privilegi concessi dallo stato (o da qualsiasi organizzazione monopolistica) a qualsiasi produttore/fornitore di beni o servizi.
La storia dello sviluppo della libertà è strettamente intrecciata alla lotta contro i monopoli. L’indipendenza dell’India dal dominio inglese iniziò con la lotta promossa da Gandhi contro il monopolio del sale sostenuto da governo britannico.

Chiaramente, se qualcuno si sente strettamente legato in maniera volontaria e per una qualsiasi ragione a un produttore/fornitore ed egli vuole mantenerlo come unica fonte di approvvigionamento per certi beni e servizi, questo è del tutto accettabile a patto che egli non voglia imporre le sue scelte ad un altro.
La realtà dei monopoli è strettamente legata alla componente dell’obbligo e agli aspetti relativi che concernono l’assenza di scelte o scelte limitate.

Per questo motivo un discorso sui monopoli, per essere completo in termini teoretici e effettivo in termini concreti deve coinvolgere tutte le aree in cui si attuano pratiche monopolistiche.
Andare oltre i monopoli significa dunque andare oltre

- Il territorialismo (monopoli politici)
Problema: Lo stato e i suoi accoliti come bande che monopolizzano un certo territorio e estraggono risorse, godendo di privilegi e distribuendo il bottino. Soluzione: la fine dello stato territoriale e dei confini territoriali.

- Il corporativismo (monopoli economici).
Problema: Lo stato e i suoi accoliti come attori monopolisti all’interno di un certo territorio. Soluzione: abolire tutto il sistema di licenze e concessioni statali, abolire il sistema dei brevetti, eliminare tutti i vincoli alla libera circolazione delle persone e dei beni.

- Il nazionalismo (monopoli culturali).
Problema: Lo stato e i suoi accoliti come sette nazionali che monopolizzano i mezzi di propaganda e di indottrinamento. Soluzione: la fine degli idiomi nazionali ufficiali e delle mono-culture nazionali statali, la fine del finanziamento obbligatorio ai mezzi di comunicazione statali e alle scuole statali.

Solo quando questi tre aspetti di una organizzazione sociale imposta saranno totalmente eliminati noi saremo finalmente fuori del monopolismo. A quel punto altri concetti e altre pratiche che sono già emerse potranno, con tutta probabilità, svilupparsi pienamente, e cioè:

- Lo spazialismo. La possibilità di muoversi e stabilirsi in qualsiasi località del globo o di rimanere dove si è, di associarsi (o non associarsi), di ottemperare (o di non ottemperare) a qualsiasi istituzione o organizzazione si ritenga giusto. Nel discorso sociale tutto ciò si chiama panarchia.

- Il pluralismo. La possibilità di avviare iniziative sociali o economiche, individualmente o in gruppo, senza che sussistano ostacoli legali di qualsiasi tipo e con la sola avvertenza generale (principio universale) che non si intenda commettere un danno alle persone o alle risorse naturali.

- Il cosmopolitismo. La possibilità di praticare principi universali senza alcun tipo di restrizione monopolistica concernente il territorio, i mezzi di pagamento, le norme giuridiche, ecc. tutto nello spirito della volontarietà (vivi e lascia vivere) e reciprocità (dai e ricevi).

Nella sfera delle relazioni socio-economiche questo significa un mondo caratterizzato da liberi contatti - liberi contratti, senza alcuna interferenza da parte di un agente monopolistico. Questo darà vita con tutta probabilità a nuove forme di organizzazione nella produzione di beni e nella fornitura di servizi che già esistono in una certa qual misura ma non sono ancora così ben diffuse e praticate. Possiamo immaginare ad esempio imprese e servizi:

Gestiti da consumatori/utenti. La stretta associazione o addirittura fusione tra consumatori e produttori potrebbe portare al fatto che alcune risorse siano gestite direttamente dai cittadini (si veda ad esempio il caso del National Trust nel Regno Unito che amministra edifici storici e aree di valore ambientale). Con la crescita del tempo libero da obblighi lavorativi necessari è del tutto possibile che alcune persone mostreranno un interesse a gestire attività commerciali e servizi collettivi in cui essi hanno un ruolo anche come consumatori e utenti.

Guidati da consumatori/utenti. Il legame diretto tra produttori e consumatori può essere basato su una circolazione dell’informazione molto forte, su una assistenza post-vendite molto buona e giungere fino al punto da ritagliare il prodotto sulle richieste del consumatore. Questo è il modo in cui il sistema sociale e tecnico della libera impresa e della sovranità del consumatore si sarebbe evoluto se non fosse stato portato fuori strada dalle sirene del monopolismo (protezionismo e corporativismo).  

Sostenuti da consumatori/utenti. Ogni attività commerciale dovrebbe continuare a esistere o scomparire solo nella misura in cui continua ad essere capace di soddisfare le richieste dei consumatori ad un prezzo conveniente. Anche il presidente della commissione senatoriale sull’antitrust del senato americano, Estes Kefauver, riconobbe che il modo migliore per combattere i monopoli è lasciare che il meccanismo del libero scambio funzioni senza ostacoli e questo “costituisce una forma di governo rappresentativo. Ciò permette all’insieme … dei consumatori di votare le loro preferenze effettuando o eliminando certi acquisti.” (Estes Kefauver, In a Few Hands, 1965). E  questo fatto del sostegno da parte dei consumatori e utenti è il solo modo effettivo ed equo di promuovere/sostenere buoni produttori e di punire/cancellare quelli cattivi.

Alcune di queste proposte non rappresentano nulla di nuovo in quanto, in realtà, all’interno di qualsiasi sistema economico libero i consumatori e gli utenti sono la spina dorsale di qualsiasi impresa commerciale che, in definitiva, può prosperare e sopravvivere solo in quanto soddisfa i bisogni dei consumatori.
Ad ogni modo, ciò che vi sarebbe di nuovo è questo totale riorientamento verso le scelte libere degli utenti e lontano da decisioni imposte dai governanti; ed è questo radicale cambio di rotta che caratterizza il nuovo paradigma e preannuncia un futuro di esseri umani autonomi al posto di soggetti statali monopolizzati.