Gian Piero de Bellis

Poliarchia : un Paradigma

(2002 - 2013)

 


 

Dall'economia politica all'ecolonomia scientifica

 

Economia
Economia Politica
L'inizio fuorviante
Le convinzioni erronee
Le politiche nocive
Le dottrine assurde
Le opinioni infondate
I risultati miserevoli
La fine mistificante
La scienza economica
L'ecolonomia

 


 

Economia (^)

Il termine ‘economia’ proviene dal Greco oikos (casa) + nomos (regola, nemein = amministrare, avere cura) e significa regole della casa o, più precisamente, regole volte a una buona amministrazione domestica.
Una buona amministrazione domestica si basa, nel suo complesso, sull’uso attento di risorse generalmente scarse; ne segue che le caratteristiche essenziali associate all’economia sono la frugalità, la parsimonia e il risparmio associati con l’efficienza, la prudenza e la previdenza.

Nel corso della storia la generale semplicità e immediatezza delle relazioni tra gli esseri umani e le risorse ha significato che non c’era bisogno di una scienza complessa e apposita avente per oggetto l’economia. In una fase successiva, quello che è ora considerato come un comportamento economico fu esaminato e valutato dal punto di vista della moralità, portando, ad esempio, alla condanna dell’usura o alla difesa del giusto prezzo. Oltre a ciò, l’economia, per la maggior parte delle persone, era l’avere a che fare con beni scarsi prodotti e consumati all’interno di un ristretto agglomerato di persone.

È solo con l’espansione sostenuta della produzione e del commercio nei secoli XVI e XVII che iniziamo ad avere una serie di scritti incentrati in special modo sui beni e sul commercio, i quali segnano l’inizio di uno specifico campo di indagine.
All’inizio e per un certo periodo, la filosofia morale molto più che altri rami del sapere come la politica, la psicologia o la matematica, caratterizza il modo di vedere di questi scrittori.

Al tempo stesso è necessario rimarcare un dato che non costituisce una pura e semplice coincidenza, e cioè che l’emergere dell’economia come un nuovo settore di studi è accompagnata dall’ascesa degli stati nazionali. Infatti, la preoccupazione principale della maggior parte di coloro che scrivono sulla produzione e sul commercio è come accrescere la ricchezza dello stato di cui essi fanno parte, territorialmente e politicamente.

I pareri al riguardo sono abbastanza difformi, come si vedrà tra breve.
Ad ogni modo, praticamente per tutti gli scrittori di economia il punto di partenza dell’analisi e del dibattito economici è rappresentato dall’economia dello stato nazionale.
Si prospetta qui la tesi che questo fatto, riguardante le origini, comprometterà fin dall’inizio lo sviluppo dell’economia in quanto scienza.

In breve e per convenienza classificatoria potremmo caratterizzare l’evoluzione del concetto di economia nel modo seguente:

- l’economia pratica del mondo antico: la cura e l’amministrazione domestica dei Greci e dei Romani.
- l’economia morale del mondo medioevale e delle prime fasi del mondo moderno: la produzione e gli scambi relativamente limitati da parte degli individui sotto l’influsso della religione.
- l’economia politica del tardo mondo moderno e del mondo contemporaneo: il livello crescente della produzione e degli scambi nelle società sotto il dominio della politica.

L’attenzione di questo scritto si concentra sull’ultimo periodo e intende mostrare le caratteristiche principali, i fatti e il crollo finale di quella che si definisce: ‘economia politica’.

 

Economia Politica (^)

 Nel 1615 apparve in Francia un testo scritto da un certo Antoine De Montchrétien intitolato Traité de l’Economie Politique. Questo sembra sia stata la prima volta in cui è impiegata l’espressione Economie Politique (Economia Politica). Il trattato non è nulla di più che una celebrazione del regno francese, con consigli che oscillano in maniera opportunistica tra il commercio estero e l’autarchia secondo quanto era ritenuto conveniente per il potere dello stato francese in ascesa.

A quei tempi gli scambi tra città e campagna erano sempre più accompagnati dal commercio tra gli stati nazionali. Ecco perché l’interesse dei primi ‘economisti’ moderni si incentra sul ruolo dell’agricoltura e sul modo di esercitare il commercio.
In base agli interessi e alle posizioni intellettuali, i primi economisti sono stati classificati e ripartiti in due scuole differenti:

- quella dei cosiddetti fisiocratici, i quali sottolineavano l’importanza dell’agricoltura come la vera fonte della ricchezza;
- quella dei cosiddetti mercantilisti, che consideravano la ricchezza equivalente all’avere una favorevole bilancia commerciale.

Oltre a queste distinzioni, vi era qualcos’altro che li differenziava ed era la libertà di commercio, sostenuta dai fisiocratici e osteggiata dai mercantilisti.

Comunque, per tutti loro, l’unità economica di riferimento era lo stato nazionale e, di conseguenza, la libertà economica sostenuta o rigettata era, per principio, soggetta a quello che si riteneva tornasse utile all’economia nazionale in un caso o nell’altro.
Questo avveniva perché, come già sottolineato, i primi scrittori moderni di economia vivevano in un’epoca di ascesa dello stato nazionale e non potevano fare a meno di concentrarsi sul potere emergente del loro tempo, considerandolo il punto di riferimento e di azione appropriati per ogni discorso economico.

Inoltre, l’ampliamento degli scambi attraverso la moneta basati sempre più su strumenti di conto nazionali favoriva la identificazione dell’unità economica appropriata come quella in cui la moneta nazionale era accettata, forzatamente o volutamente, e cioè lo stato nazionale territoriale.
Era quindi praticamente impossibile per l’economia (nella sua nascita moderna) essere qualcosa d’altro se non ‘economia politica’ o ‘Staatwirtschaft’ (economia statale) o ‘Nationalöconomie’ (economia nazionale).

Eventi storici e l’interpretazione che ne è stata data rinforzerà questo modo di vedere e contribuirà ulteriormente a fornire un punto di avvio fuorviante che si ripercuoterà negativamente, in futuro, sulla formulazione e risoluzione dei problemi economici.

 

L’inizio fuorviante (^)

Il primo sistema economico che ha catturato l’attenzione e l’ammirazione degli studiosi del tempo è stato quello dei Paesi Bassi, dove molte persone hanno acquisito ricchezza attraverso la costruzione di navi e il commercio internazionale.

Quello che era rimarcato da molti economisti di allora non era la realtà che un commercio aperto e libero e una atmosfera generale di tolleranza favorivano lo sviluppo dell’imprenditoria e potevano rendere prospera anche una popolazione sostanzialmente priva di risorse naturali; quello che si osservava era il fatto che la ricchezza si dirigesse verso gli Olandesi piuttosto che verso di loro (cioè verso la nazione Inglese o Francese).
Questo è il segno che qualcosa si era già corrotto, fin dall’inizio, nella costruzione dell’economia come scienza.

Infatti, le proposte avanzate da molti economisti per contrastare la prosperità degli Olandesi, che derivava da una imprenditoria e da un commercio relativamente liberi, erano tutte sotto il segno dell’intervento statale che favorisse e proteggesse i produttori e mercanti nazionali, anche fino al punto di attaccare e sbaragliare militarmente i concorrenti stranieri.

Tutto ciò diede vita in Francia al Colbertismo (l’aiuto statale alle manifatture nazionali) e dappertutto a quello che Adam Smith chiama il sistema mercantile (lo stato che favorisce i commercianti nazionali), oltre a tutte le ignobili guerre che i vari stati hanno condotto al fine di ottenere una supremazia politica ed economica.

L’analisi critica che Adam Smith farà del sistema mercantile nel Libro IV della Ricchezza delle Nazioni non sarà sufficiente a liberare il pensiero economico dalla camicia di forza della politica nazionale fatta di barriere territoriali e di bilance commerciali nazionali. È abbastanza indicativo della natura dei tempi il fatto che, per un gioco del destino, anche un così ardente sostenitore del libero commercio come Adam Smith sarebbe finito, due anni dopo aver pubblicato la sua opera più famosa, come commissario delle dogane scozzesi.

Certamente egli non nutriva alcuna illusione riguardo all’attuazione della libertà economica avendo scritto: “attendersi, davvero, che la libertà di commercio venga mai ristabilita nella sua interezza in Gran Bretagna è assurdo come sperare che una Utopia venga mai realizzata in questo paese.” (La Ricchezza delle Nazioni, Libro IV).
Per cui, fin dall’inizio esistono condizioni che rappresentano dati inevitabili di ogni analisi economica; in altre parole, già fin dall’inizio, ‘economia’ equivale a ‘economia politica’ la quale poi altro non è che ‘economia statale’.

L’economia politica in quanto economia statale è considerata dagli economisti essere caratterizzata, in maniera implicita, da tre aspetti:

- una economia territoriale (delimitata da confini statali)
- una economia nazionale (a vantaggio dei soggetti statali)
- una economia controllata (amministrata da governanti statali).

Da questo avvio fuorviante che nemmeno gli economisti classici sono riusciti a modificare in quanto essi condividevano, almeno in parte, lo schema mentale dei governanti statali nazionali, ne deriveranno una serie di conseguenze che saranno disastrose non solo per l’economia come scienza ma soprattutto per gli individui in quanto esseri umani che agiscono economicamente (cioè, coloro che si comportano razionalmente nell’amministrazione della casa).

 

Le convinzioni erronee (^)

L’avvio fuorviante, nei tempi moderni, dell’economia come politica economica (e cioè economia amministrata dallo stato) non poteva non produrre altro che convinzioni erronee che sono ancora attive, diffuse e propagate da docenti pagati dallo stato e da giornalisti con tendenze statiste.
Le convinzioni erronee possono essere sintetizzate in tre orientamenti e pratiche fortemente radicati:

- il commercio come guerra
- la ricchezza come denaro
- il lavoro come occupazione.

Esaminiamo brevemente ciascuna di queste convinzioni in modo da comprendere le dinamiche dell’economia politica e le sue conseguenze sulla vita delle persone.

Il commercio come guerra (il territorialismo statale)
I governanti statali dell’età del mercantilismo (dal XVI alla metà del XVIII secolo), in presenza di un commercio che sta crescendo e si sta allargando oltre i confini dello stato, non lo trattano, come in passato, solo con concessioni e protezioni paternalistiche, ma come uno strumento potente per la costruzione dello stato nazionale.
A questo scopo i commercianti nazionali devono essere messi in una condizione altamente favorevole rispetto ai commercianti stranieri e devono operare per la ricchezza e il potere dello stato. Inoltre, una opinione diffusa dell’epoca è che la ricchezza e il potere di uno stato possono crescere solo a spese di altri stati, data l’esistenza inevitabile di interessi totalmente conflittuali.
Per questo motivo, qualsiasi terribile fatto che avvenisse ad uno stato vicino rappresentava un fatto estremamente positivo per un altro sovrano statale. La politica di tutti gli stati consisteva nell’impoverire il commercio e le attività di un altro stato con ogni sorta di ostacoli (tariffe, blocchi commerciali, ecc.). Il commercio internazionale era visto come una guerra tra stati per il primato economico, una guerra commerciale che poteva essere accompagnata da una vera e propria guerra armata contro un altro potere commerciale al fine di metterlo da parte e conquistare una totale supremazia politica (ad es. il regno Inglese contro la repubblica Olandese).
L’obiettivo della politica economica era quello di dominare il commercio internazionale al fine di esportare beni in cambio di denaro (monete). Una bilancia commerciale favorevole era ed è ancora oggi considerata in generale come un obiettivo positivo di politica economica.

La ricchezza come denaro (le casse dello stato)
L’incremento di denaro (monete d’oro e d’argento) all’interno dello stato era lo scopo essenziale della politica economica.
Il fatto che il denaro sia equiparato alla ricchezza è facilmente spiegabile dal punto di vista dell’economia politica considerando che il termine ‘soldati’ deriva dal Latino soldum che significa denaro.
Per cui, la disponibilità di denaro per i sovrani statali significava che essi potevano pagare i soldati che combattevano guerre finalizzate ad accrescere la ricchezza e il potere dello stato per mezzo di nuovi sudditi, nuovi territori, nuove vie commerciali.
Molti soldati erano lavoratori agricoli divenuti eccedentari a seguito della introduzione di metodi più produttivi nella coltivazione dei campi. E questo costituiva un altro motivo per utilizzarli al servizio del sovrano e per il sovrano di avere una costante disponibilità di denaro in modo da poterli pagare.

Il lavoro come occupazione (i sudditi statali)
L’emergere dell’economia politica avvenne in parallelo con notevoli cambiamenti nelle campagne (ad es. le recinzioni) e con la trasformazione di molti contadini autonomi in lavoratori dipendenti nelle nuove officine e fabbriche industriali.
Questo era in Inghilterra il tempo in cui molti contadini senza terra si muovevano di luogo in luogo in cerca di lavoro, e a questo scopo vennero introdotte le Poor Laws che spingevano le persone a fermarsi e lavorare in cambio di assistenza.
È a partire da allora che l’idea che il lavoro è soprattutto se non essenzialmente lavoro dipendente ha iniziato a crescere fino a quando è diventato un dato scontato.
Dal punto di vista degli economisti politici, l’idea di fornire occupazione era ritenuto il mezzo necessario per evitare disturbi e sommosse da parte di masse scontente e indigenti. Questo si integra molto bene con l’opinione diffusa che i sudditi dovessero essere occupati a lavorare per la ricchezza e il potere dello stato.

Queste tre convinzioni riguardanti il commercio, la ricchezza e il lavoro rappresentavano un insieme integrato di idee che sono sopravvissute anche alla critica degli economisti classici (in particolare Adam Smith) e che sono ancora con noi nell’epoca attuale.
Esse sono state indebolite e quasi abbandonate (almeno in teoria) per un breve periodo nell’Inghilterra del XIX secolo, ma quello è stato solo un felice interludio che si è concluso con la riaffermazione del militarismo e imperialismo degli stati e con la riformulazione di quelle convinzioni in una maniera ancora più solida. Esse sono alla base delle politiche economiche della maggior parte del XX secolo.

 

Le politiche nocive (^)

Le convinzioni erronee di un pensiero economico incentrato sugli stati nazionali territoriali e sulle esigenze politiche dei suoi governanti hanno prodotto una serie di politiche nocive che non hanno nulla a che vedere con le pratiche economiche (vale a dire, basate su un uso appropriato e razionale delle risorse).
Esaminiamo queste politiche che emergono dalle convinzioni precedentemente tratteggiate.

Il commercio come guerra
L’idea che il commercio sia un fenomeno da analizzare e da gestire a livello nazionale ha portato a presentarlo come una sorta di lotta tra stati in cui la vittoria (commerciale) di uno si associa alla sconfitta (economica) dell’altro. Lo stato vittorioso era quello la cui bilancia commerciale era positiva o, in altre parole, quello le cui esportazioni eccedevano le importazioni. L’obiettivo da raggiungere consisteva in una maggiore quantità di monete (d’oro e d’argento) che entrasse nel reame rispetto a quelle che ne uscivano. Chiaramente, considerando che il denaro è solo un mezzo per un fine, proporsi l’obiettivo di ammassare denaro invece di godere dei beni prodotti non è affatto un comportamento razionale, a meno che non si tratti di una sospensione temporanea di alcuni consumi e i risparmi fatti siano investiti in produzioni che soddisfino altri bisogni del consumatore
Questa concezione del commercio come lotta nazionale ha prodotto due politiche statali di notevole peso:

- Il controllo del commercio (Protezionismo). Al fine di avere una bilancia commerciale favorevole, lo stato ha limitato la libertà degli scambi a livello internazionale (attraverso tariffe e quote alle importazioni) e ne ha sovvertito il regolare funzionamento (attraverso aiuti e incentivi all’esportazione). Quando alcuni governanti statali hanno iniziato a introdurre queste politiche, altri governanti statali hanno attuato ritorsioni col risultato che è stato impedito il regolare funzionamento degli scambi. L’impossibile obiettivo a livello generale di una bilancia commerciale favorevole ha quindi causato tutta una serie di squilibri economici che hanno avuto conseguenze estremamente negative sui lavoratori e sui consumatori, e cioè su quasi tutti, sotto forma di cicli economici di effervescenza e di depressione.

- L’espansione del commercio (Imperialismo). Al fine di superare la presunta esistenza del problema di trovare sbocchi per i beni nazionali, gli uomini politici hanno tirato fuori dal loro cappello le avventure imperialistiche presentate come imprese economiche da giornalisti nazionalisti e da intellettuali al servizio dello stato. Marx che non può essere sospettato di sottostimare l’importanza del motivo economico, derise gli sforzi dei “filosofi statali” volti a “scoprire motivi segreti e nascosti del guadagno commerciale” della perfida Albione “di cui Palmerston sarebbe l’esecutore inflessibile e senza scrupoli” anche quando lo stesso Lord Palmerston “mette in atto comportamenti che appaiono del tutto contrari agli interessi materiali della Gran Bretagna.” (Karl Marx, Storia diplomatica segreta del diciottesimo secolo, 1899). Come sottolineato acutamente da A. J. P. Taylor riferendosi all’imperialismo dei governanti statali: “Il loro metro di misura era il Potere, non il Profitto.” (L’imperialismo economico, 1952).

Nonostante ciò, l’idea che “il commercio segue la bandiera” è diventata una dottrina consolidata anche quando negata dalla realtà storica.

Il denaro come ricchezza
L’idea che il denaro è ricchezza è tipica di una fase del pensiero economico che ha visto l’importanza crescente e l’affermazione completa degli scambi monetari. Questo fatto non poteva certo sfuggire all’attenzione dei padroni statali i quali iniziarono con  l’essere i supervisori interessati delle monete d’oro e d’argento e finirono per diventare dappertutto i padroni monopolistici dei mezzi interni di pagamento rappresentati dalle banconote di carta.
Se la moneta è la ricchezza e la ricchezza produce potere, il dominio sulla moneta era un risultato inevitabile della ricerca e del rafforzamento del potere politico. Le politiche statali che ne derivano sono:

- Il controllo del denaro (moneta a corso legale). Per imporre un certo denaro come moneta a corso legale i padroni dello stato devono scacciare l’uso di monete straniere dal commercio nazionale e devono centralizzare la produzione di denaro attraverso l’istituzione di una banca centrale (nazionale o federale). Leggi devono anche essere introdotte che sanciscano che il denaro prodotto da questa banca diventi, di fatto, un mezzo di pagamento obbligatorio che le persone non possono rifiutarsi di accettare in ogni transazione interna se non vogliono incorrere in sanzioni statali.

- L’espansione del denaro (la stampa di banconote). Una volta assunto il controllo monopolistico del denaro, i padroni dello stato possono utilizzarlo a loro piacimento soddisfacendo bisogni che sono sempre grandiosi ed eccessivi. Con l’introduzione della moneta cartacea la falsificazione della moneta, che era uno sforzo laborioso di riduzione del contenuto d’oro e d’argento, diventa un gioco da ragazzi consistente nel far sì che la stampa di banconote proceda senza interruzioni per soddisfare le esigenze del potere. Chiaramente a questo punto siamo al di fuori di qualsiasi discorso economico e l’espressione ‘economia politica’ è solo un altro nome per definire l’avidità politica o, più semplicemente, l’imbroglio politico.

Il lavoro come occupazione
L’idea del lavoro come occupazione è il risultato di un atteggiamento paternalistico da parte dei governanti associato ad un timore di masse inoperose e scontente. In molti economisti c’è anche la concezione che lo stato è responsabile della condizione dei suoi sudditi, la quale si ritiene dipenda in larga misura dall’avere un impiego e un salario stabili. Ne consegue che l’obiettivo proclamato di politica economica è quello di favorire l’occupazione della gente.
Considerando che i governanti sono generalmente attenti ai bisogni delle masse quando esse sono una forza con cui fare i conti, questo ha prodotto politiche per:

- Il controllo del lavoro (sindacalizzazione). L’economia politica prende in esame la forza politica dei vari attori economici. Nel caso del lavoro questo si è tradotto, dietro la pressione dei Sindacati operai, nel favorire in tutti i modi i lavoratori nazionali fino al punto di chiudere praticamente le frontiere a nuovi lavoratori provenienti dall’estero (come fecero gli Stati Uniti nel 1924 con l’introduzione di quote all’immigrazione) o nel rendere il movimento delle persone estremamente difficile (e generando il fenomeno, assurdo da un punto di vista economico, dei cosiddetti lavoratori clandestini). I governanti statali in associazione con i sindacati hanno anche istituzionalizzato contrattualmente (o, il altre parole, ossificato) la dipendenza e staticità del lavoratore occupato con il pretesto plausibile di garantirgli una occupazione stabile. Quello che abbiamo ora, in alcuni paesi, è la realtà di lavoratori registrati super-protetti e bloccati nel loro posto di lavoro accanto a lavoratori chiamati clandestini considerati merce di consumo (gli extra-comunitari) e a nuove leve di lavoratori totalmente precari (i giovani, le donne).

- L’espansione del lavoro (burocratizzazione). Gli economisti politici hanno anche sostenuto l’intervento dello stato come fornitore diretto di occupazione attraverso lavori promossi dallo stato. Una strada imboccata di frequente è stata quella di gonfiare le fila della burocrazia al punto che molti dipartimenti ministeriali o uffici comunali occupano molte più persone di una grande impresa. Oltre a ciò, anche il personale prettamente politico e i consulenti esterni sono esempi di queste politiche di lavoro come occupazione che hanno reso gli economisti politici così orgogliosi e fieri di sé stessi.

Queste politiche sono ancora attuate ma non più con la stessa ampiezza e sicurezza di essere nel giusto che le ha caratterizzate nel corso del secolo passato.
Durante il secolo XX altre concezioni, che erano latenti nel passato, sono emerse in pieno e sono diventate dottrine consolidate, che non sono meno assurde delle politiche nocive qui sottolineate.

 

Le dottrine assurde (^)

Le convinzioni elencate più sopra hanno prodotto le politiche che sono state evidenziate precedentemente le quali, a loro volta, per essere giustificabili, hanno generato alcuni pilastri di dottrina del pensiero economico che sono sostenuti da molti economisti e sono diffusi come pensiero economico razionale da parte di una moltitudine di economisti e di commentatori. Chiaramente, da politiche nocive non potevano che derivarne dottrine assurde.
Le assurdità principali della politica economica in quanto dottrina sono:

- La bontà delle distruzioni materiali
- La desiderabilità del pieno impiego
- La necessità del consumismo generalizzato
- L’imperativo della crescita continua
- La rilevanza della contabilità nazionale

 

La bontà delle distruzioni materiali
Gli economisti politici sembrano considerare la creazione di bisogni come un fatto positivo per il processo economico e sono talmente radicati in questa posizione che sono inclini a vedere con occhio favorevole anche una domanda che nasca da una distruzione materiale. Famosa è la presa in giro di Bastiat nei confronti di questa posizione espressa nel suo scritto “Il vetro rotto” (in "quello che si vede e QUELLO CHE NON SI VEDE") e il suo consiglio tragicomico: “brûlez Paris” [bruciate Parigi]. Egli non avrebbe mai immaginato che la sua provocazione intellettuale sarebbe stata presa come un suggerimento e una spiegazione seri per il progresso economico. Eppure questo è ciò che è avvenuto quando alcuni economisti hanno attribuito la formidabile ripresa economica della Germania Occidentale dopo la seconda guerra mondiale alle notevoli distruzioni materiali che hanno permesso una massiccia modernizzazione delle sue fabbriche. Ad ogni modo, essi si sono dimenticati di spiegare come mai lo stesso fenomeno di miracolo economico non abbia avuto luogo nella Germania dell’est, o perché l’economia svizzera abbia presentato risultati estremamente positivi (spesso superiori alla Germania occidentale) senza tutte quelle distruzioni.
Chiaramente gli economisti politici e i loro simpatizzanti non sono affatto consapevoli dell’esistenza di componenti psicologiche (quali la solidarietà e la voglia di ripartire da zero) e ambientali (la libertà di agire e di operare) che hanno ripercussioni materiali. Infatti questi erano gli aspetti essenziali alla base della fenomenale ripresa della Germania occidentale. Altrimenti sarebbe sufficiente bombardare un paese e tutte le sue fabbriche, di tanto in tanto, qui e là, e, dalle ceneri, emergerebbe una nuova scintillante economia.
La bontà della distruzione materiale non è certo presentata dagli economisti politici in maniera così cruda, ma che cosa pensare di questa affermazione: “Sembra che sia praticamente impossibile per una democrazia capitalistica organizzare le spese a una scala necessaria per effettuare il grandioso esperimento che proverebbe la mia tesi … tranne che in condizioni di guerra.” (John Maynard Keynes, Articolo pubblicato su New Republic, 29 Luglio 1940). L’equazione positiva distruzione nel presente = produzione in futuro non poteva essere più chiara. Non c’è quindi da sorprendersi quando, sulla base di ciò, qualcuno abbia potuto scrivere un articolo dal titolo: “Buone notizie per l’economia della Florida per l’arrivo dell’uragano Andrew.” In sostanza, assurde premesse da parte di stimati economisti portano ad abominevoli conclusioni da parte di noti giornalisti.
Ogni sorta di distruzione materiale è vista generalmente con occhio positivo dagli economisti politici perché, secondo loro, favorisce un’altro dei loro principi dottrinari.

La desiderabilità del pieno impiego
Conseguire il pieno impiego è diventata una delle formule magiche degli economisti politici. Infatti, la tesi sostenuta da Keynes nella precedente citazione, che poteva essere provata impegnandosi in una guerra, era quella del pieno impiego.
A questo riguardo occorre soffermarsi su tre punti.

  1. Innanzitutto il pieno impiego degli economisti politici non è davvero tale. Infatti, per mantenere l’inflazione sotto controllo essi inventano una farsesco “tasso naturale di disoccupazione” che fissano al numero magico del 3%. Che cosa ci sia di naturale in questo tasso di disoccupazione, soprattutto per coloro che sono disoccupati in nome della ‘natura’, è un mistero o meglio una assurdità su cui non vale la pena di soffermarsi.
  2. Il concetto di pieno impiego è difficile da inquadrare con precisione perché le persone (uomini e donne) cercano lavoro in base alle opportunità che esistono. Per cui il numero fluttua sulla base di così tanti parametri (tipo di lavoro, durata del lavoro, livello del salario, trasporti, struttura familiare, ecc.) che risulta essere del tutto arbitraria l’affermazione di un economista politico che il pieno impiego è stato o non è stato raggiunto.
  3. Ad ogni modo, l’obiezione principale all’idea della piena occupazione deriva da una prospettiva puramente socio-economica. La funzione essenziale di un meccanismo economico è quella di produrre beni e servizi nel modo più razionale (cioè efficiente) possibile e non quella di impiegare le persone nella maniera più estesa (cioè pletorica) possibile. Altrimenti, sarebbe sempre appropriato scavare una galleria impiegando migliaia di lavoratori attrezzati con piccole vanghe (massima occupazione) invece di usare una trivella gigante fatta funzionare da un personale ridotto (minimo sforzo).

Certamente in una società tecnologicamente arretrata le persone saranno impiegate al posto delle macchine perché esse sono disponibili presto e a basso costo. In quelle società parecchi si offriranno a compiere qualsiasi lavoro per ottenere i mezzi di sussistenza. Ma, con lo sviluppo delle capacità personali e degli strumenti tecnologici che portano ad un innalzamento della produttività, gli individui possono godere dei frutti di un processo produttivo meccanizzato/automatizzato con un dispendio di energie e di tempo dedicato al lavoro progressivamente ridotti. Per cui, l’assurda dottrina del pieno impiego dovrebbe essere sostituita da quella, che ad alcuni apparirebbe come una tesi scioccante, e cioè la piena non-occupazione; ciò significa che il lavoro (dipendente o indipendente) occupa solo una piccola (o ridotta) frazione della vita di un individuo e il resto è disponibile per attività autonomamente scelte e autonomamente condotte. E minore è il tempo necessario per il lavoro (cioè, maggiore è l’estensione della non occupazione) più avanzati (cioè più produttivi e ricchi) dovrebbero essere considerati i membri di una società. E questo capovolgerebbe del tutto la nozione di società di piena occupazione e il concetto di occupazione, accettato in maniera talmente acritica e supina che anche il lavoro più inutile e più insulso è visto e considerato positivamente purché sia legale e porti un reddito.
Infatti, per i sostenitori del pieno impiego il ciclo economico funziona quando la maggio parte delle persone sono impiegate per produrre un ammontare crescente di beni che sono assorbiti attraverso una propensione crescente al consumo. Per essi “ ‘scavare buche nel terreno’ pagando i lavoratori con il denaro risparmiato, farà aumentare non solo l’occupazione ma anche la torta nazionale fatta di beni e servizi utili.” (John Maynard Keynes, La teoria generale, 1936).
Chiaramente questa affermazione è del tutto pazzesca anche se fatta da un docente di Cambridge ed è accolta con favore dai rappresentanti eletti nei vari Parlamenti. La loro adesione interessata a simili idiozie è legata ad un’altra assurda dottrina degli economisti politici.

La necessità del consumismo generalizzato
L’economista politico è generalmente preoccupato del sottoconsumo (la “paura dei beni” degli scrittori mercantilisti). Questo è il motivo per cui la persona che è pagata per fare qualcosa totalmente inutile è considerata un essere prezioso per il funzionamento della macchina economica perché, non solo egli non produce nulla di vendibile, ma il suo salario sarà destinato a un certo ammontare di consumi, vale a dire all’assorbimento di beni e servizi.
Tempo fa una pubblicità in una televisione europea mostrava una persona che camminava con una borsa piena di beni appena acquistati e una voce in sottofondo diceva: Lui sta aiutando l’Economia.
Questa è idiozia al più alto livello, non solo perché il Signore o la Signora Economia non esistono affatto ma anche perché tale modo di pensare capovolge la relazione tra bisogni e beni.
Nel mondo assurdo dell’economista politico noi non comperiamo beni per soddisfare bisogni ma al fine di assicurare un salario ai lavoratori, un profitto agli imprenditori e, cosa estremamente importante anche se non evidente, per generare l’IVA (imposta sul valore aggiunto) che va allo stato.
Quindi siamo di nuovo, da una prospettiva diversa, all’interno dello schema concettuale che applaude qualsiasi consumo materiale come il modo per far avanzare l’Economia, sottintendendo con ciò che le persone sono al servizio dell’economia e non che le relazioni economiche sono a beneficio delle persone.
Quello che gli economisti politici alla Keynes non potevano immaginare era il fatto che persone formate al consumo e a un uso crescente di beni e servizi potessero diventare talmente inclini a ciò che il tasso di produzione di alcuni beni e soprattutto di alcuni servizi non poteva tener dietro al livello della domanda. La propensione al risparmio che preoccupava così tanto Keynes è praticamente inesistente per molte persone. Essi, alla pari di molti stati, sono profondamente indebitati e con nessuna intenzione di iniziare a comportarsi razionalmente (cioè economicamente) tagliando sugli sprechi e risparmiando in maniera accorta.
Ad ogni modo, per mantenere lo stesso livello di spesa eccessiva e, al tempo stesso, evitare il collasso, gli economisti politici hanno fatto ricorso a un altro assurdo principio dottrinario.

L’imperativo della crescita continua
Se c’è un principio di politica economica che viene assunto come un obiettivo implicito, tenuto in grande considerazione dappertutto e da quasi tutti, è quello della continua crescita economica.
Questa è assunta come un fenomeno del tutto desiderabile e come un imperativo assoluto di qualsiasi economia nazionale al fine di evitare la stagnazione e la decadenza. 
Infatti, molte persone associano erroneamente la crescita materiale con vari tipi di sviluppo (tecnologico, culturale, personale, ecc.) e cadono nella trappola di volere il primo per godere anche del secondo. Questo potrebbe essere vero in una situazione in cui vi sono molti bisogni insoddisfatti ma non quando una certa soddisfazione o addirittura un notevole benessere materiali sono stati raggiunti. La persona che incomincia a ingrassare non dovrebbe avere come obiettivo quello di crescere ancora di più di peso al fine di diventare un perfetto obeso ma dovrebbe dimagrire per poter essere e restare una persona fisicamente sana.
Sfortunatamente, è praticamente impossibile applicare queste nozioni elementari a coloro che, avendo accumulato enormi debiti, sperano in una crescita continua di questa mitica ‘Economia’ e quindi del loro reddito (sia esso il reddito personale o gli introiti dello stato) come l’unica possibilità per uscire dall’insolvenza, in mancanza di qualsiasi intenzione di comportarsi in maniera economicamente ragionevole. 
Noi non abbiamo ancora raggiunto la situazione di collasso finanziario imminente ma qualcosa potrebbe accadere che rende l’imperativo della crescita continua o altamente spiacevole (ad es. vincoli ambientali) o del tutto inaccettabili (ri-orientamento culturale) molto prima che esso diventi non più praticabile dal punto di vista finanziario.
Una delle ragioni per l’esistenza della crescita come obiettivo di politica economica deriva dall’esistenza di un altro principio dottrinario assurdo.

La rilevanza della contabilità nazionale
L’economia politica basa i suoi discorsi principalmente su dati nazionali e sull’idea di una contabilità nazionale.
Se questa era già un modo molto limitato e ingannevole di affrontare i processi economici a livello globale e locale anche quando gli stati nazionali dominavano la scena, è adesso del tutto obsoleto.
Inoltre, non è solo la limitazione in termini di un territorio arbitrario (lo stato nazionale) che non è scientificamente sostenibile in un discorso economico; l’aspetto negativo è rappresentato anche dal fatto che i dati monetari con cui si costruisce la contabilità nazionale non hanno un significato reale per la vita delle persone se non come allusioni simboliche o messaggi propagandistici.
L’investimento e il consumo registrati nella contabilità nazionale potrebbero essere certamente un modo di esprimere in termini monetari le diverse scelte economiche delle persone; ma i dati registrati potrebbero anche, e in maniera uguale, coprire lo spreco da parte dello state delle risorse monetarie dei contribuenti. La cifra del Prodotto Interno Lordo non fa differenze tra queste due realtà e quindi è, in termini pratici, senza utilità e senza significato.
In aggiunta a ciò, affermare che il Prodotto Interno Lordo è cresciuto di una certa percentuale non ci dice nulla riguardo alle componenti di questa crescita, se era necessaria per coprire esigenze insoddisfatte, se le esigenze provengono da individui che liberamente scelgono come impiegare le loro risorse o dallo stato che decide su una certa allocazione dei fondi senza curarsi di effettuare una seria analisi dei costi e dei benefici e una registrazione delle perdite e dei guadagni.
Quello che si intende sostenere qui non è il rifiuto del parametro monetario ma solo che il parametro monetario è utile se:

- fa riferimento a individui e comunità che possono liberamente scegliere come destinare le loro risorse monetarie;
- è collegato a un meccanismo di costi e ricavi che registra se le risorse sono state impiegate economicamente o no;
- è integrato da altri indicatori sociali che indicano la disponibilità e il godimento effettivi dei beni e servizi da parte degli individui

Solo allora potremmo avere una contabilità significativa riguardo alla situazione socio-economica di una persona o di un gruppo. Altrimenti, enormi investimenti effettuati dallo stato in servizi che non funzionano potrebbero incrementare il PIL (Prodotto Interno Lordo) ma l’unico vero risultato è quello di far crescere un altro PIL e cioè il Profitto Interno dei Ladri.

I principi dottrinari assurdi che sono stati qui elencati dominano ancora la maggior parte dei discorsi convenzionali a causa di alcune opinioni infondate diffuse soprattutto dai giornalisti e accettate con troppa facilità dalla gente.

 

Le opinioni infondate(^)

I principi dottrinari assurdi dell’economia politica sono condivisi ampiamente dalla gente comune a causa dell’esistenza di opinioni infondate che non sono altro che illusioni infantili.
L’economia politica, come indicano questi termini, è un prodotto degli uomini politici in associazione con gli economisti, e fa riferimento alla sfera delle relazioni politiche ed economiche. Le opinioni infondate quindi hanno a che vedere con queste figure e con il campo di intervento che è loro assegnato. In particolare le persone sono portate a credere che:

- gli uomini politici abbiano una visione più chiara e siano portatori di valori migliori che non il comune essere umano;
- la politica è l’arena e la dinamica appropriati per risolvere, a vantaggio della stragrande maggioranza, i problemi socio-economici di tutti;
- gli economisti devono consigliare i politici riguardo a quei problemi in quanto essi hanno conoscenze al riguardo superiori a qualsiasi altra persona;
- l’economia è una specifica area della vita sociale che richiede, per funzionare, interventi costanti e precisi da parte di esperti.

Tutte queste convinzioni possono esistere e riprodursi perché esse sono sostenute da un apparato di indottrinamento (gli insegnanti al servizio dello stato) e di disinformazione (i giornalisti come megafono dello stato). Altrimenti esse non sopravviverebbero nemmeno ad un esame critico superficiale. Infatti, dovrebbe essere del tutto scontato per qualsiasi essere umano razionale che:

- i politici sono esseri umani come tutti, che non hanno una conoscenza della realtà migliore di molta gente comune; al contrario, il fatto di essere eletti li colloca in una torre di avorio di privilegi e in una posizione in cui essi sono generalmente circondati da una schiera di sicofanti e da gruppi di pressione, il che costituisce un velo di corruzione che ostacola la percezione e comprensione dei problemi socio-economici;
- la politica è un modo antagonistico di affrontare i problemi e non solo non è in grado di trattare le relazioni economiche ma è l’esatta antitesi degli scambi economici che sono effettuati perché, in una certa qual maniera, beneficiano entrambe le parti:
- gli economisti non sono esseri superiori dotati di una conoscenza superiore sul come allocare le risorse di tutti, per la semplice ragione che la realtà socio-economica è un tutto complesso in flusso costante che non può essere dominato, teoricamente e praticamente, da un gruppo di esperti;
- l’economia non è una sfera separata della vita in cui opera l’homo oeconomicus; nella realtà dei fatti nessuno dei due (l’economia e l’homo oeconomicus) esiste altro che come invenzioni di alcuni scienziati sociali che si sono ritagliati un’area di impiego e di intervento.

In generale, politici ed economisti hanno una visione distorta della realtà socio-economica che essi considerano come qualcosa di essenzialmente:

- meccanico: fatta di leve e bottoni su cui essi agiscono come ingegneri supervisori;
- materiale: fatta di denaro e guadagni di cui essi dispongono e che distribuiscono secondo criteri che essi presentano come superiori e applicabili a tutti;
- corporativo: fatta di stati ed istituzioni di cui essi sono i legittimi protagonisti, con la pretesa di esserlo in nome del popolo e sotto l’autorità della scienza.

Per dire come stanno davvero le cose basta affermare che l’economia politica è stata ed è tuttora null’altro che la cosiddetta economia (e cioè i produttori e i consumatori) al servizio della politica (e cioè degli uomini politici e dei burocrati). Infatti, essa è l’agenda dei politici articolata con il frasario tecnico dei loro consiglieri professionisti, i cosiddetti economisti. L’agenda è un miscuglio di provvedimenti opportunistici che puntano al consumo o al risparmio, all’inflazione o alla deflazione, alle nazionalizzazioni o alle privatizzazioni, tutto in base alle esigenze contingenti dell’elite al potere e dei suoi associati. Ecco perché l’economia politica non è una scienza, non è neanche una semi-scienza, ma è totale e completa scemenza.
Per quanto riguarda gli economisti politici essi dovrebbero essere visti e qualificati per quello che essi sono: propagandisti politici che scrivono e operano a vantaggio dei loro datori di lavoro, e cioè i governanti politici, per la promozione della loro piccola o grande bottega nazionale di cui essi sono affiliati ben retribuiti.

Il mantenimento di opinioni infondate ha prodotto risultati miserevoli, intendendo con ciò non solo risultati mediocri ma ampia miseria e profonda disperazione per milioni di persone. Esaminiamo brevemente alcuni risultati dell’economia politica.

 

I risultati miserevoli (^)

L’intervento statale nelle faccende economiche è esistito sin dall’ascesa dello stato nazionale territoriale a una posizione dominante. Comunque, anche un secolo di persistente interventismo statale non è una ragione valida per ritenere che il futuro non sarà altro che una continuazione del passato. Prendendo in esame un altro caso di intromissione, l’interferenza statale in materia di religione è esistita e ancora esiste in alcune regioni del mondo, ma non è più  praticabile o accettata dappertutto. Infatti, per molte persone al giorno d’oggi sarebbe considerata una inaudita e totalmente inammissibile invasione della loro vita personale.

Nella realtà dei fatti, nel corso di una breve stagione, il clima intellettuale, almeno in Gran Bretagna, allora il paese più avanzato al mondo, era contrario all’intervento statale anche in materia di economia. Nonostante ciò, anche allora si trattava assai spesso di una facciata culturale dietro la quale lo stato territoriale puntava a conquistare posizioni di vantaggio per i soggetti nazionali, e i capitalisti nazionali cercavano di assoldare dalla loro parte lo stato contro la concorrenza straniera e contro le richieste dei lavoratori. Il risultato finale fu la caduta in totale discredito dell’idea e della pratica del laisser-faire ridotta ad essere l’ideologia astuta dei gruppi economicamente forti, appoggiati dallo stato.

Per cui, verso la fine del XIX secolo, l’intervento statale manifesto ed esteso mise radici, promosso dai partiti cosiddetti liberali o progressisti, anche prima che l’ideologia del socialismo di stato (Lassalle, Lenin) lo avesse reso del tutto accettabile e desiderabile.

I risultati di politica economica raggiunti da uno stato altamente interventista possono essere sintetizzati come:

- Monopoli nazionali (grandi poteri e piccole persone)
Nel 1890 lo Sherman Anti-Trust Act fu introdotto negli Stati Uniti con lo scopo di combattere qualsiasi accordo tra imprese per dominare. Il risultato vero di questa legge fu di rendere ancora più attraente la fusione e il consolidamento di molte imprese che diventarono corporazioni gigantesche che dominavano i vari settori dell’economia. Se a ciò aggiungiamo le leggi protezionistiche (tariffe, quote all’importazione) introdotte dal Congresso a favore dei produttori nazionali e i brevetti monopolistici concessi a queste grandi imprese, abbiamo un quadro estremamente chiaro di quello che l’economia politica ha fatto per l’ascesa e il mantenimento dei monopoli nazionali.

- Caos pianificato (penuria e sovrapproduzione)
Soprattutto durante la prima metà del secolo XX sono stati condotti vari esperimenti di pianificazione statale centralizzata. Il risultato generale è stato ciò che von Mises ha definito “caos pianificato”. In particolare abbiamo avuto:

- il fallimento dei piani sovietici di industrializzazione e di decollo economico;
- il fallimento da parte dello stato cinese di mettere in atto un “balzo in avanti” dell’economia e della società tutta;
- il fallimento del New Deal americano di curare la depressione economica.

Dietro il termine fallimento dobbiamo intendere o colossali cadute di produzione che hanno causato carestie e morte o sovrapproduzione crescente di alcuni beni (specialmente nel settore agricolo attraverso il sostegno dei prezzi)
Il fatto è che, tutte le volte che lo stato impone un certo prezzo, se il prezzo è troppo basso la produzione di quel bene crollerà causando carenze; se il prezzo è tenuto artificialmente troppo alto il produttore sarà incline a espandere ulteriormente la produzione sicuro che lo stato assorbirà qualsiasi quantità invenduta. Questo è il motivo per cui ogni sistema di prezzi imposto dallo stato attraverso la politica economica si rivela, nella realtà dei fatti, pura follia.

- Disordine monetario (inflazione e depressione)
La sfera in cui la politica economica ha prodotto la maggior parte dei disastri e miseria spesso nascosta è quella della politica monetaria.
L’idea che lo stato (attraverso una banca centrale) sia la sola istituzione capace e onesta di amministrare i mezzi di pagamento sotto forma di un monopolio della moneta è una convinzione che è più forte di qualsiasi dogma religioso. E questo nonostante il disastro dell’iperinflazione (la Germania negli anni 1920) e della depressione (gli Stati Uniti negli anni 1930) causati da misure prese dalla banca centrale.
Cicli rovinosi e protratti nel tempo di espansione e di depressione sono quasi esclusivamente il prodotto di politiche monetarie piuttosto che il risultato di fasi commerciali di effervescenza e di contrazione che pure esistono ma sono un fatto di breve durata collegato allo sviluppo tecnologico e ai cambiamenti nelle esigenze dei consumatori.
Il vertice dell’assurdità dell’economia politica è stato raggiunto negli anni 1970 con la presenza al tempo stesso dell’inflazione e della stagnazione.

Tutti questi risultati miserevoli sono stati mascherati durante il periodo successivo alla seconda guerra mondiale da una crescita sostenuta resa possibile da una certa liberalizzazione del commercio e sburocratizzazione della vita economica, dopo gli eccessi statalisti del fascismo, del nazismo e del New Deal. La ripresa e il progresso economico che hanno permesso di soddisfare, ad esempio, bisogni pressanti nel campo degli alloggi, e hanno portato ad miglioramento generale del livello di vita, sono stati molto accentuati nella realtà meno dirigista (la Germania Occidentale) e più superficiali e difficili in quella più interventista (l’Inghilterra).
Ad ogni modo, negli anni 1970, dopo che la ripresa aveva esaurito il suo corso, la stagnazione associata all’inflazione presero il sopravvento. Questa situazione non solo deteriorava il processo economico (cioè il livello di vita delle persone) ma comprometteva anche i mezzi di sopravvivenza dello stato per mancanza di un settore produttivo in crescita da cui estrarre risorse.
Per questo motivo l’economia politica doveva passare attraverso un cambiamento radicale.

 

La fine mistificante (^)

Nel 1971 Richard Nixon, il 37° presidente degli Stati Uniti d’America, per giustificare le sue misure fortemente interventiste nell’economia (ad es. controlli sui salari e sui prezzi, vaste spese federali) che non erano in sintonia con il credo politico che egli professava, fece una famosa dichiarazione affermando: “Ora siamo tutti keynesiani!”
Di certo egli non sospettava che, prima della fine di quel decennio, il pensiero di Keynes sarebbe stato abbandonato sempre più da uomini politici e intellettuali e che l’economia politica, vale a dire l’idea che lo stato sia in grado di gestire i processi economici, andrà incontro ad una profonda crisi culturale.

La stagnazione associata all’inflazione degli anni 1970, i gravi problemi di bilancio che affliggevano alcuni stati come il Regno Unito e l’Italia, e il profondo disagio sociale che dava luogo a richieste economiche da parte di categorie di lavoratori, tutto ciò stava conducendo alcuni paesi ad un futuro oscuro di decadenza a meno che non si attuasse un cambiamento generale delle politiche.
Era arrivato il momento di abbandonare il keynesismo che aveva prodotto non solo notevoli deficit dei bilanci statali ma anche la nazionalizzazione di molte industrie e servizi che erano gestiti male e l’introduzione di ogni sorta di vincoli e di distorsioni nelle relazioni economiche. Lo stato si dichiarava finalmente incapace di gestire imprese che accumulavano debiti e che quindi stavano compromettendo anche i proventi dello stato.

La trasformazione dell’economia politica portata avanti dalla Signora Thatcher nel Regno Unito e da Ronald Reagan negli Stati Uniti consisteva nel fatto che lo stato si ritirava dalla gestione corrente di grandi compagnie e di settori precedentemente nazionalizzati e lasciava che i privati producessero beni e servizi e i relativi profitti, attingendo dai quali lo stato poteva assicurarsi una buona fetta di denaro attraverso la tassazione.

In altre parole si trattava di una prima separazione delle sfere della politica e dell’economia, con il settore economico libero (o un po’ più libero) di operare al fine di produrre risorse di cui una quota diventasse entrate dello stato.  È quindi corretto vedere in ciò il primo stadio della fine dell’economia politica. I discorsi sull’economia politica continuano in Parlamento e tra i partiti politici senza sosta ma l’idea che lo stato nazionale sia in grado di controllare e gestire l’economia è oramai andata in fumo e sopravvive solo nelle menti di alcune persone in stato delusionale.

La politica nota sotto il nome di privatizzazioni e liberalizzazioni era abbastanza allettante per i governanti statali in quanto permetteva di turare alcune falle nel bilancio statale grazie alla vendita di risorse e ai maggiori introiti fiscali. Fu copiata dai capi di governo di altri paesi industriali che videro non solo il miglioramento generale della situazione nel Regno Unito (ad esempio, le imprese privatizzate che ritornavano al profitto e che fornivano servizi in maniera più efficiente) ma anche i successi degli esponenti di quelle politiche (la signora Thatcher fu rieletta tre volte di seguito e Ronald Reagan conseguì un secondo mandato presidenziale a larghissima maggioranza).

Inoltre, quando l’economia politica della pianificazione sprofondò con la fine dell’Unione Sovietica, sembrò che non ci fosse alcun futuro per l’economia statale e che tutto sarebbe stato affidato allo scambio spontaneo di liberi attori economici, con lo stato relegato al ruolo di protettore rassicurante e di arbitro imparziale.

Sfortunatamente non è stato così. L’economia politica intesa come lo stato che gestisce le imprese e ha la proprietà delle compagnie di servizi pubblici è praticamente finita, ma la politica, cioè lo stato territoriale monopolistico, è ancora al potere. Questo significa che tutti i problemi e le distorsioni principali sono ancora presenti (la tassazione statale obbligatoria, i deficit statali, il controllo statale della moneta, ecc.) resi ancora più gravi dal fatto che lo stato può ora fare affidamento su più elevate entrate fiscali derivanti dalle imprese privatizzate e dal consumismo diffuso. Queste nuove risorse hanno permesso allo stato di far partire un nuovo ciclo di sprechi (ad es. mezzo milione di persone sono state assunte dallo stato durante i governi Blair senza che si verificasse alcun miglioramento nei servizi) ed anche di imbarcarsi in avventure pazzesche col pretesto di ‘esportare la democrazia’ o di lottare per la libertà’.

Potremmo finire per ritornare al passato qualora il bisogno insaziabile di ulteriori risorse porti lo stato a immischiarsi ancora massicciamente nella gestione dell’economia.
Per evitare un ritorno pieno all’economia politica dobbiamo

- mettere il pensiero e la pratica dell’economia su una base sicura;
- estendere alla politica gli stessi criteri di funzionamento e di comportamento che sono considerati necessari nella teoria e pratica economica come in ogni analisi scientifica.

Esaminiamo ora che cosa sarebbe potuto essere il pensiero e la pratica dell’economia se avessero seguito un altro percorso e che cosa dovrebbero diventare.

 

La scienza economica (^)

Il modello di politica economica precedentemente delineato nei suoi aspetti teoretici e pratici non è stato condiviso da tutti coloro che hanno scritto sull’economia.
Infatti alcune analisi fatte agli inizi del pensiero economico promettevano una scienza economica separata dalla politica. L’economia come scienza è nata con i Fisiocratici. Essi si facevano chiamare semplicemente Economistes e le loro idee hanno influenzato notevolmente Adam Smith.
Nel libro IV de La Ricchezza delle Nazioni Smith ha criticato ampiamente le distorsioni introdotte dalla politica mercantilistica nelle relazioni economiche ma non è andato fino al punto da collocare la scienza economica su una base universale rimanendo ancorato al concetto di nazione (prodotto nazionale, commercio nazionale, bilancio statale nazionale).

Lo stesso può dirsi di Karl Marx con le sue formulazioni ambigue riguardo al ruolo dello stato nell’economia. Nel suo scritto più popolare (il Manifesto dei Comunisti, 1848) egli sostiene la posizione che lo stato nazionale aveva un ruolo da giocare nel superamento del capitalismo (ad es. come banchiere centrale, come proprietario di imprese e gestore dei servizi pubblici). Successivamente (si veda La critica del programma di Gotha, 1875) cambiò idee ma quelle proposte fatte affrettatamente alla fine del Manifesto sono rimaste attaccate al suo nome, facendo di lui un sostenitore dell’economia politica, cioè dell’intervento dello stato nell’economia.

Solo quegli scrittori che sono andati al di là dei ristretti confini dello stato nazione sono riusciti a offrire una visione interessante delle finalità della scienza economica.
Alcuni di essi non erano economisti di professione, come ad esempio Piotr Kropotkin. Pur utilizzando ancora l’espressione ‘economia politica’ egli ha prodotto una definizione della scienza economica libera da qualsiasi caratterizzazione politica: “lo studio dei bisogni del genere umano e dei mezzi per soddisfarli con il minore spreco di energia umana.” (La conquista del pane, 1906)

Già nel 1831 uno studioso come l’arcivescovo Whateley, scontento dell’espressione ‘politica economica’, propose di sostituirla con il termine “catallattica” (dal Greco katallasso = scambiare), sottolineando il fatto che lo scambio di beni e servizi era lo scopo principale di qualsiasi attività economica.
Verso la fine del 1800 il termine “scienza economica” (economics) iniziò ad essere usato sempre più al posto di “economia politica”.
Nel 1879, nella Prefazione alla seconda edizione della Teoria dell’economia politica, l’economista William Stanley Jevons propose apertamente di “abbandonare quanto prima la vecchia e fastidiosa espressione che caratterizza la nostra scienza” vale a dire economia politica, a vantaggio “del termine più semplice e conveniente di economia (economics)”.

Nel 1890 apparve la prima edizione dei Principi di Economia (Principles of Economics) di Alfred Marshall. 
Ad ogni modo il cambio di terminologia non ci deve trarre in inganno e farci credere che si era verificato un cambio radicale di prospettiva. Il termine ‘scienza economica’ (economics) era utilizzato anche da persone come i coniugi Webb, i fondatori nel 1895 della London School of Economics and Political Science, che credevano fortemente nell’intervento statale nell’economia ed erano dunque sostenitori della “economia politica”. A dire il vero, è proprio dalla fine del XIX secolo fino alla fine della seconda guerra mondiale che l’economia politica, e non la scienza economica, ha avuto il sopravvento.
Nonostante ciò, durante tutto quel periodo ci sono state voci isolate che si sono opposte, in maniera implicita o aperta, alla intromissione della politica statale nella dinamica delle libere scelte economiche.

Queste voci o furono confinate a una certa sfera di analisi e considerate accettabili solo in relazione a questioni di micro-economia come l’impresa o il consumatore individuale (questo è il caso dei cosiddetti marginalisti); o furono del tutto cancellate e considerate irrilevanti rispetto ai problemi attuali e non degne di studio nelle università (come la scuola Austriaca di von Mises e Hayek).
Nel 1922 Ludwig von Mises in Die Gemeinwirthschaft: Untersuchungen Uber der Sozialismus (Socialismo: Una analisi economica e sociologica, Londra, 1936) aveva già avanzato la tesi della assurdità della pianificazione centralizzata come strumento economico che potesse sostituire, per la determinazione della produzione e dei prezzi, il meccanismo guida rappresentato dal libero scambio.

In questo egli era stato preceduto da Enrico Barone (Il Ministro delle Produzione nello Stato Collettivista, 1908) che reputava inconcepibile un controllo politico dell’economia perché solo una sperimentazione continua, possibile esclusivamente su una base di libera concorrenza, poteva far emergere i migliori coefficienti di produzione. Secondo Barone, gli aggiustamenti e sommovimenti economici, definiti in maniera spregiativa come “anarchia” dai sostenitori della pianificazione economica, sono in realtà l’aspetto insostituibile di qualsiasi processo di produzione che possa essere qualificato come economico. Questo ci ricorda la “distruzione creativa” sottolineata da Schumpeter (Capitalismo, Socialismo e Democrazia, 1942) come il motore necessario per muovere qualsiasi processo economico innovativo.

Poi, nel 1944, il saggio di F. A. Hayek La strada verso l’asservimento (The road to serfdom) diede il colpo decisivo all’idea stessa di economia politica mostrando non solo quanto fosse  inappropriato dal punto di vista pratico ma anche inaccettabile dal punto di vista morale l’intervento dello stato nelle decisioni economiche degli individui.

Con la stessa propensione ad un abbandono dell’economia politica, Lionel Robbins formulò nel 1932 una famosa definizione dell’economia come “la scienza che studia il comportamento umano come una relazione tra fini e scarsi mezzi che hanno usi alternativi.” (Un saggio sulla natura e sul significato della scienza economica, 1932)
Tale definizione e tutto il materiale critico prodotto sulla impossibilità di funzionamento dell’economia politica come economia controllata e diretta dallo stato, si proponevano di collocare gli individui e gli scambi al centro del processo economico.

Questo rappresentava uno sforzo lodevole ma risentiva di limiti di base dovuti ai vincoli culturali del tempo.
I sostenitori della scienza economica in opposizione ai sostenitori dell’economia politica si battevano per il libero mercato ma erano ancora all’interno di uno schema in cui uno stato territoriale aveva ancora il controllo monopolistico di alcuni aspetti dell’economia, quali le questioni economiche. Dobbiamo arrivare al 1976 perché Hayek iniziasse a introdurre la proposta di una denazionalizzazione del denaro (Choice in Currency: the Denationalization of Currency, 1976). E solo nel 1993 abbiamo lo scritto di un economista, Murray Rothbard, Nations by Consent: decomposing the nation-state, in cui lo stato nazionale è messo tra i rottami della storia.

Anche la scuola della “public choice” che ha prodotto l’idea del “fallimento del governo” per correggere e bilanciare la tesi del “fallimento del mercato” sostenuta dagli economisti politici, rimane ancora vincolata alla concezione dello stato territoriale nazionale e dell’economia territoriale nazionale.
Quindi, a parte alcune notevoli eccezioni che comunque stanno crescendo di numero e di peso, siamo ancora molto lontani dall’essere sulla strada giusta e rimarremo così fino a quando non abbandoneremo definitivamente tutta la vecchia zavorra fatta di Prodotto Interno Lordo, bilancia commerciale, pieno impiego, banca centrale, moneta a corso legale, crescita economica nazionale. Quello che occorre non è nulla di meno che una trasformazione totale del paradigma.
Per fare ciò è necessario abbandonare completamente l’idea e la pratica dell’economia politica e muoversi verso quella che è qui definita “ecolonomia scientifica”.

 

L’ecolonomia (^)

L’ecolonomia rappresenta un nuovo quadro di riferimento che sostituisce totalmente la vecchia visione dell’economia politica e va al di là anche della struttura ancora limitante e insoddisfacente della semplice economia.
Essa unifica i campi dell’economia e dell’ecologia focalizzando l’attenzione sui seguenti aspetti:

- gli individui (bisogni e scambi)
- lo spazio (la navicella spaziale terra abitata dalla comunità globale)
- le risorse (umane, materiali).

Lo scopo dell’ecolonomia è lo studio dei bisogni e degli scambi degli individui, e dei mezzi per soddisfarli attraverso attività che portino al minore spreco possibile di energia umana e di risorse materiali.
I concetti e dati principali presi in esame dall’ecolonomia sono quelli di:

- bisogni (il soddisfacimento appropriato delle esigenze umane)
- scambi (il fenomeno della reciprocità seriale universale)
- attività (la libera espressione delle qualità umane).

I bisogni, gli scambi e le attività della generazione corrente dovrebbero essere soddisfatti e realizzati in modo tale da permettere alle future generazioni di avere le stesse se non migliori possibilità di soddisfare bisogni, effettuare scambi, svolgere attività.
Questo significa che, in presenza e con riferimento a risorse limitate, l’idea di crescita materiale continua, qualunque sia il livello di soddisfazione di bisogni già raggiunto dagli individui, dovrebbe essere abbandonata in quanto insostenibile. Infatti, come è stato espresso nella maniera più chiara da Kenneth Boulding, “colui che ritiene che la crescita esponenziale dovrebbe continuare all’infinito o è un pazzo o è un economista.”

Ecolonomia scientifica poggia sulla convinzione che esistono regole universali per la gestione appropriata della navicella spaziale terra. Il compito di ognuno è di scoprire queste regole sulla base di osservazioni empiriche che portano a formulazioni teoriche soggette a verifica continua.
Spetta poi ad ognuno l’accettare o rigettare (interamente o in parte) quelle regole, sopportando direttamente le conseguenze (positive o negative) delle proprie azioni. Chiaramente ciò esclude le possibilità di comportarsi in modo da compromettere la salute e il benessere di altri individui (ad esempio, inquinando l’ambiente naturale, restringendo la libertà di scambio, monopolizzando risorse, o mettendo in atto pratiche dannose similari).

L’ecolonomia scientifica è uno strumento cognitivo utile per rendere le persone consapevoli di principi e pratiche che sono risultate adatte e valide, in particolare quando individui hanno a che fare con risorse materiali scarse e con la loro allocazione più efficiente. Comunque, l’ecolonomia non copre l’intero arco delle esperienze ed esigenze umane.
Infatti, nella vita reale esistono aspetti che vanno al di là dell’insieme ecologia + economia. Quegli altri aspetti, i quali sono di solito in una posizione prioritaria o dominante, fanno riferimento a:

- etica (la sfera dei valori umani)
- estetica (la sfera dei valori sensuali)
- civica (la sfera dei valori sociali).

Oscar Wilde definì il cinico come “un uomo che conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di niente” (Lady Windermere’s Fan, Atto III). Ossessionati dagli imperativi della politica economica (occupazione, sete di denaro, consumismo, crescita, ecc.) la maggioranza delle persone sembra aver preso il cinico come suo modello comportamentale e lo ha chiamato “homo oeconomicus” confinandolo all’interno dei confini e delle strettoie di una artificiale “economia nazionale”.

In realtà l’homo oeconomicus non esiste se non come una invenzione-finzione, e neanche esiste la “economia nazionale” se non come uno spazio fittizio inventato.
Nonostante ciò, anche costruzioni inesistenti possono diventare realtà estremamente restrittive e nocive se sono sostenute e imposte a tutti da un potere territoriale monopolistico come lo stato.
In realtà, esiste solo l’essere umano con i suoi bisogni, desideri, sensazioni, atteggiamenti, aspirazioni e valori, sul vasto spazio del pianeta terra e oltre.

L’ecolonomia scientifica significa la re-introduzione sulla scena dell’essere umano completo capace di effettuare scelte consapevoli sulla base di informazioni esaurienti.
L’obiettivo non è quello di sostituire l’homo oeconomicus con l’homo oecolonomicus ma di imboccare una nuova strada in cui i valori della libertà e della responsabilità sono le componenti principali delle decisioni umane, senza gli ostacoli costituiti da barriere mentali paralizzanti o confini nazionali limitanti.