Gian Piero de Bellis

Crescita economica ovvero crescita delle illusioni e delle follie

(Settembre 2011)

 


 

Nell'autunno-inverno 1997-1998 Martine Aubry, ministro francese dell'occupazione e della solidarietà nel governo di Lionel Jospin, era preoccupata per la crisi economica, una delle tante crisi economiche causate dallo stato. A quei tempi vivevo in Francia, a Lyon, e seguivo regolarmente i notiziari. A una giornalista della televisione che la intervistava sul come superare la crisi, Martine Aubry, ministro della repubblica e numero due del governo, rispose con le seguenti testuali parole che non ho mai potuto dimenticare: “Il faut rélancer la consommation.

In sostanza, il ministro della solidarietà non faceva alcun riferimento alla fine dei privilegi, degli sprechi, dei parassitismi, delle ingiustizie, dei disservizi e via dicendo. No! Parlava soltanto di un rilancio massiccio dei consumi.

Rimasi perplesso, per non dire esterrefatto, a sentire quelle parole. Ma non era certo quella la prima volta che rimanevo perplesso al riguardo.

Andiamo allora indietro nel tempo.

 

Nel 1972, apparve una ricerca commissionata da un gruppo di persone capeggiate dall'industriale Aurelio Peccei, e riunite sotto la sigla del Club di Roma. Il rapporto, intitolato Limits to Growth (maldestramente tradotto in italiano come Limiti dello Sviluppo) fece notevole scalpore. In esso si formulava la tesi che una crescita economica continua nella produzione e nei consumi in presenza di risorse naturali oggettivamente limitate avrebbe condotto, entro i prossimi cento anni, ad un esaurimento delle risorse stesse e quindi ad una crisi sociale epocale con conseguente crollo del benessere delle popolazioni. L'invito quindi era quello di prepararsi, e passare ad un modello sociale ed economico che tenesse conto di queste limitazioni.

Il rapporto fu visto da molti, e specialmente da coloro che si collocavano sotto l'etichetta di “progressisti di sinistra” come una macchinazione capitalista per sancire in eterno il divario tra i popoli (quelli sviluppati e quelli arretrati) e quindi come una sorta di catastrofismo neo-imperialista.

Anche quella volta rimasi perplesso per una simile interpretazione nei confronti di uno studio che poteva invece essere un punto di partenza interessante per la riflessione e la discussione. La mia perplessità sorgeva anche dal fatto che, a quei tempi, non avevo ancora capito quale fosse il paradigma concettuale (o, detto in maniera più diretta, gli interessi concreti) su cui si poggiavano le critiche degli oppositori al rapporto.

Ma, per chiarire ciò, dobbiamo fare ancora un passo all'indietro.

 

Nel 1936, John Maynard Keynes pubblicò la sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta che era, in sostanza, un inno alla spesa statale e al consumo delle famiglie. Il successo fenomenale della teoria keynesiana ha a che fare con taluni aspetti importanti della dinamica politica e personale, in assenza di limiti dettati dalla razionalità, e cioè la voglia di potere (stato) e la voglia di consumo (individuo).

In sostanza, attraverso Keynes, le manie di grandezza assoluta dello stato e le pulsioni edonistiche senza limiti dell'individuo trovano una rispettabilità intellettuale che sarebbe stata inconcepibile prospettare solo alcuni decenni prima. Per dirla in maniera molto sintetica, con Keynes la morale dell'Inghilterra Vittoriana basata sul risparmio e sulla moderazione viene condannata e totalmente rimpiazzata dall'elogio del consumo e dalla rivalutazione dello spreco come strumenti per far funzionare l'economia.

La visione keynesiana si basa dunque su due aspetti fondamentali: consumi e crescita. I consumi spingono alla crescita e la crescita stimola i consumi. Nella visione keynesiana la crisi economica è risolvibile solo facendo ripartire i consumi i quali riavvieranno la crescita. Uno schema talmente semplice e talmente elementare che non poteva non attirare le simpatie dei più semplici tra i semplici, vale a dire dei più idioti tra gli idioti: i politici e i giornalisti.

Con Keynes, il comportamento sensato di un capofamiglia che vive nei limiti delle sue possibilità economiche e, qualora indebitato, cerchi di risparmiare riducendo spese non essenziali, diventa, a livello statale, un comportamento condannabile e irrazionale. In sostanza, la follia debitoria dell'individuo che spende e spande diventa attività altamente meritoria qualora praticata dallo stato e dalle sue cricche.

 

Ecco allora, rifacendo un salto nel tempo, individuata la fonte della posizione di Martin Aubry quando dichiarò in maniera perentoria: Il faut rélancer la comsommation. Per la socialista statalista keynesiana Martine Aubry, la ripresa dei consumi avrebbe riavviato la crescita e posto fine alla crisi.

A questo punto però bisogna approfondire l'analisi e capire quanto è fondata una posizione che:

a) si basa sui consumi per rilanciare la crescita
b) si basa sulla crescita per uscire dalla crisi.

A) Consumi. Nell'analisi keynesiana, di cui il massimo rappresentante attuale è Paul Krugman, le origini della crisi sono individuate in un calo della spesa complessiva. Questa convinzione risulta però fallace dal punto di vista sia fattuale che concettuale:

- Fattuale. Una analisi dei dati relativi all'economia americana in questo periodo ci dice che le spese per consumi sono aumentate nel corso del 2011 e sono adesso ad un livello superiore rispetto al periodo precedente la crisi. Nonostante ciò non vi è alcun segno di miglioramento della situazione economica. E questo è avvenuto anche in periodi passati di crisi (la Grande Depressione e il New Deal).

- Concettuale. L'idea che un indebitamento colossale dello stato e anche di molte famiglie (ad es. per l'acquisto di una casa) possa trovare una soluzione positiva attraverso livelli ancora più elevati di indebitamento, stampando denaro e distribuendolo a pioggia, rivela segnali di dubbia lucidità mentale (ovvero, pura e semplice follia) oltre che di dubbia moralità (ovvero, pura e semplice degenerazione).

B) Crescita. La crescita è vista da quasi tutti, keynesiani e molti anti-keynesiani, come il toccasana per uscire dalla crisi e far ripartire l'economia. I keynesiani puntano sui consumi pensando che così gli imprenditori faranno ripartire gli investimenti (produzione); molti anti-keynesiani puntano sul risparmio e sugli investimenti dando per scontato che la domanda (consumi) assorbirà una riavviata produzione. Nessuno, tranne minoranze molto marginali di fautori della decrescita, si pone la domanda: perché crescere? Tanto è vero che quasi tutti sono a studiare misure per la crescita (attraverso più stato) o a invocare un ritorno alla crescita (attraverso meno stato). Per tutti costoro, la crescita è positiva, sempre e ovunque. Punto e fine della discussione.

A mio avviso invece è indispensabile porsi le seguenti tre domande:

1. Quando è necessaria la crescita?
2. A chi torna utile la crescita?
3. Cosa porre, eventualmente, al posto della crescita?

A queste domande provo a dare una risposta sommaria, giusto per avviare una riflessione.

1. La crescita è necessaria quando ci sono bisogni insoddisfatti e risorse materiali unite a capacità tecnologiche che potrebbero soddisfarli. Un esempio positivo in tal senso è dato dalla Rivoluzione Industriale che ha permesso il soddisfacimento di bisogni di nutrizione e di migliori condizioni di vita sulla base di una crescente produttività frutto del progresso tecnologico. Un esempio negativo invece è dato dall'aumento crescente dei consumi nelle società occidentali avanzate sulla base di un indebitamento continuo. In sostanza, la crescita promossa dallo stato assistenziale ha significato, in moltissimi casi, comperare cose di cui non si ha bisogno, con risorse di cui non si ha la disponibilità, generando situazioni di malessere fisico, culturale e morale (obesità, mancanza di autonomia, invidia, ecc.).

2. Poiché la crescita nei paesi avanzati a elevato livello di consumi è generalmente di questo secondo tipo, è necessario chiedersi come mai tutti o quasi siano favorevoli alla crescita (che vuol dire soprattutto aumento dei consumi). La risposta è presto data ed è in relazione al fatto che lo statismo, consapevolmente o inconsapevolmente, è il paradigma su cui si basa il ragionamento della stragrande maggioranza delle persone. Per esse, le entrate dello stato sono equiparate quasi a un reddito che va a vantaggio degli individui e delle famiglie. La crescita dei consumi è dunque invocata e auspicata da tutti gli statalisti in quanto, su ogni unità di consumo, la Banda Bassotti dello Stato italiano e dei suoi affiliati, ricava, attualmente, il 21% (IVA) di profitto (mentre per alcuni prodotti, tipo la benzina, andiamo oltre il 50%). Ne consegue che la crescita dei “vostri” consumi è la condizione indispensabile per uscire dalla “loro” crisi. Senza la crescita, che vuol dire senza un aumento delle entrate fiscali su ogni bene e servizio venduto sul mercato da loro controllato, lo stato bancarottiere è spacciato.

3. La fine dello stato è però l'inizio di una vita sensata e serena per gli individui. Per le persone che vivono in società avanzate e che godono già di un livello di benessere materiale (consumi) decente, l'ansia di dover crescere ad ogni costo, anno dopo anno, per allontanare lo spettro della crisi, non dovrebbe esistere. La crisi è il risultato dell'attività della piovra statale che succhia risorse a tutti, e quanto più queste risorse si moltiplicano, tanto più si allarga l'area dello spreco e del parassitismo. Per cui non si porrà mai fine a questa pazza corsa della crescita fino a quando ci saranno produttori-lavoratori schiavi, accecati anch'essi dal mito della crescita, che comportandosi da utili idioti, continueranno a vivere in una dinamica schizofrenica fatta di produrre-consumare sempre di più per essere continuamente spolpati fino all'osso dai parassiti di stato. Chiaramente, dal momento che le persone produttive hanno in sé quasi una molla verso la creatività e la produzione di qualcosa di buono e di utile in maniera sempre più perfezionata e su scala sempre più allargata (questo si chiama il processo civilizzatore) è necessario sostituire il mito illusorio della crescita con la realtà illuminante dello sviluppo. E per chiarire la differenza tra crescita e sviluppo penso che sia sufficiente concludere con questa citazione presa dai Principi di Politica Economica (1848) di John Stuart Mill, in cui Mill, una volta che si è giunti ad un certo livello di benessere economico, si dichiara a favore dello sviluppo personale e sociale (chiamato stato stazionario) al posto della ulteriore crescita materiale:

“Io non posso considerare lo stato stazionario del capitale e della ricchezza con l’avversione spontanea manifestata dagli economisti politici della vecchia scuola.”

“Confesso che non sono attratto dall'idea di una vita come quella concepita da coloro che pensano che la condizione normale dell'essere umano sia quella di lottare per sopravvivere; che calpestarsi, schiacciarsi, sgomitarsi, e pestare i piedi a qualcuno, che è la forma corrente di vita sociale, sia il destino più augurabile per il genere umano.”

“È a malapena necessario notare che una condizione stazionaria del capitale e della popolazione non implica uno stato stazionario riguardo al miglioramento dell’essere umano. Vi sarebbe ugualmente campo per ogni tipo di coltivazione dell’intelletto e di progresso morale e sociale: così tanto spazio per affinare l’Arte del Vivere, e maggiore probabilità di tale miglioramento, quando le menti cessano di essere preoccupate dal mestiere di sopravvivere.” (Libro IV, Capitolo VI)

 

 


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