Gian Piero de Bellis

Il futuro voluto

(Aprile 2012)

 


 

Durante gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso sono apparsi una serie di saggi che avevano come finalità l’esplorazione del futuro.

Gli autori più famosi di quegli scritti sono Herman Kahn e Anthony Wiener (The Year 2000, 1967), Eric Jantsch (Technological forecasting in perspective, 1967 ), Alvin Toffler (Future Choc, 1970) e Daniel Bell (The Coming of Post-Industrial Society, 1973).

Nel 1968, ad un simposio tenuto a Bellagio (lago di Como) uno studioso di nome Hasan Ozbekhan ha esposto, in un intervento di notevole interesse, il concetto di “willed future” (futuro voluto).

Accanto a queste esplorazioni sul futuro, in quegli anni vi è stato anche un notevole interesse per la metodologia della progettazione. Questo interesse ha spinto ad organizzare una Conferenza sulla Progettazione a Londra nel 1962 (Conference on Design Methods) e un Simposio sulla Metodologia del Progettare a Birmingham nel 1965 (The Design Method).

In sostanza esplorazione e progettazione di un futuro voluto hanno caratterizzato un breve periodo, molto vivace e proficuo, della storia culturale in un recente passato. Sulla base di quelle ricerche e metodi si sono poi diffuse realtà concrete come la rivoluzione informatica e la produzione automatizzata.

Ora, mentre continua lo sviluppo tecnologico e la produzione di strumenti informatici sempre più funzionali e veloci nel collegare gli individui e far circolare le idee, sembra che siamo ad un punto di stallo per quanto riguarda la progettazione di futuri voluti e la loro attuazione pratica.
La nebbia delle ideologie e dei miti del passato sembra offuscare ancora i cervelli per quanto riguarda il cambiamento sociale. Infatti molti sono ancora lì a parlare di democrazia come il migliore sistema che ci sia e ci possa mai essere; di capitalismo e di socialismo come mondi opposti che hanno occupato, occupano e occuperanno sempre tutto l’orizzonte dei possibili scenari socio-economici; di stati nazionali territoriali, temperati da organismi sovra-nazionali, come l’unica e insostituibile forma di organizzazione degli individui in società. Insomma, tutto il vecchiume che occupa i discorsi della gente e che, non solo non viene messo da parte, ma che sembra espandersi sempre più.  

Chiaramente, una situazione di elaborazione culturale così bloccata non può che tradursi in una assenza totale di progettazione personale e sociale e nella inesistenza addirittura dell’idea di futuro voluto.
A questo riguardo una precisazione è d’obbligo: quando si parla di progettazione personale e sociale si fa riferimento all’individuo che, crescendo e maturando, decide in quale direzione indirizzare la propria vita, svolgendo quali attività, sviluppando quali interessi e interagendo-associandosi con quali persone. Questa attività di elaborazione mentale (fatta di decisioni, simulazioni, sperimentazioni) si traduce poi nella attuazione di un futuro voluto per sé, senza che ciò comporti assolutamente l’imposizione di quel futuro anche ad altri.

Quello invece che accade, in assenza di progettazione personale, è l’accettazione di progetti elaborati da altri nel passato come cibi pronti che uno trova, da una vita, alla mensa aziendale, e che trangugia di mala voglia, in alcuni casi senza neanche porsi domande, in altri casi imprecando perché quel cibo gli fa schifo.
In entrambi i casi ci troviamo nella situazione di un passato pensato e imposto da qualcuno a tutti invece che di un futuro progettato e voluto da ciascuno per sé.
Comunque, una situazione simile non può durare a lungo perché gli strumenti tecnologici (per la comunicazione, organizzazione e futura azione) potenzialmente a disposizione dell’individuo sono talmente potenti e diffusi che l’unica possibilità di sopravvivenza del potere dei venditori di fumo e delle sanguisughe sarebbe un ritorno al grammofono a tromba e al telefono a manovella, cioè la distruzione degli strumenti avanzati e un ritorno al passato.

E tuttavia, a pensarci bene, esiste anche un’altra possibilità di sopravvivenza per il potere, ed è la via percorsa dagli stati e dai cittadini di molti stati, primo fra tutti l’italia. Tale via consiste nel favorire e nel perpetuare l’incapacità a usare gli strumenti tecnologici a disposizione per comunicare, organizzare, attuare.

Come è possibile ciò? Presto detto.
Immaginate una persona tenuta al buio in una stanza, con le persiane chiuse e la luce spenta. Chiaramente questa persona non può non inciampare negli oggetti sparsi per la stanza, mandandoli di qua e di là, senza rendersi conto di dove vanno a finire, e continuando quindi a inciamparvi contro. E non riesce a trovare nessun oggetto (in altre parole nessuna soluzione) quando ne avrebbe bisogno.

Ecco, questa è la rappresentazione della situazione in cui si trova l’italiota della scuola di stato, incapace di balbettare una lingua straniera, per il quale l’unica Wikipedia esistente al mondo è Wikipedia italia, che non ha mai letto in vita sua un testo in altra lingua che non sia l’italiano, che passa da Rai1 a Italia 1 e con ciò il mondo della comunicazione è per lui esaurito, che legge lo stesso giornale in lingua italiota tutti i giorni dell’anno, anche quando è turista a Londra, e si affanna a cercarlo nelle edicole del regno e lo compra felice anche se è quello del giorno prima, e via discorrendo. Ebbene, questo italiota è come uno che abbia deciso di non fare entrare nel suo cervello nessuna idea originale o quantomeno diversa; e lo stato italiano lo ha assecondato totalmente, da moltissimi decenni, in questa impresa di suicidio culturale, avendo dato vita alla scuola di stato, alla televisione di stato e ai giornali finanziati dallo stato. Tale persona, che nel corso delle sue giornate riceve e accede a informazioni solo nella sua lingua e a opera di mezzi di informazione legati allo stato è come un cittadino della corea del nord che vive immerso in una cortina di bugie, censure e manipolazioni. Non per nulla, secondo il rapporto 2011-2012 di Reporters sans frontières, l’italia è al 61° posto al mondo per libertà di stampa (dopo la namibia, la nuova guinea, il botswana, il ghana, la moldavia e tanti altri).

Allora, il primo punto da inserire nell’agenda delle cose da fare a livello personale è:
1. imparare una lingua straniera.
Poi, al secondo punto
2. utilizzare (quasi) ogni giorno questa lingua straniera leggendo materiali su Internet o conoscendo-entrando in contatto con persone con cui scambiare idee in tale lingua.
E, al terzo punto
3. imparare una seconda lingua straniera.
E via di questo passo.

E se uno ha messo al mondo dei figli, dovrebbe essere per lui quasi un dovere morale, se non una esigenza umana salutare, alzare le tapparelle della stanza e fare entrare la luce e l’aria, il che vuol dire stimolare i propri figli ad aprirsi al mondo esterno e alla sua varietà culturale. La varietà di culture nell’ambito dello stesso territorio non è una invenzione diabolica degli islamici o dei migranti ma l’unica realtà ragionevole. Il mono-culturalismo invece è una condizione innaturale di cui la corea del nord di Kim Jong-un offre un esempio abominevole.

Ma cadremmo nell’errore se pensassimo che la corea del nord sia un caso abominevole unico.

Il 17 dicembre 2011 il leader supremo della corea del nord, Kim Jong-il, è deceduto all’improvviso a causa di un attacco cardiaco. Alla sua morte sono seguite scene di pianto e di sconforto da parte dei suoi fedeli.

Il 5 aprile 2012 il leader supremo della lega nord, Umberto Bossi, si è dimesso all’improvviso a causa di un attacco politico-giudiziario. Alle sue dimissioni sono seguite scene di pianto e di sconforto da parte dei suoi fedeli.

Ecco allora perché, di fronte a somiglianze così strane ma anche così reali, non appare né inopportuno né esagerato parlare dell’italia come di un Gulag culturale di dimensioni colossali.
E uscire da questo Gulag, per essere in grado di immaginare e progettare futuri diversi, è possibile, individualmente, anche senza dover emigrare in terre lontane.

 


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